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Intervista di Checchino Antonini (Liberazione, 3 aprile 2009) E’ una scena molto diversa da quella delle grandi manifestazioni no global di Seattle e Genova. La differenza è che ora sembra che il movimento si sia diffuso nei territori, che abbia contaminato le forme di lotta ben oltre le modalità codificate del movimento operaio tradizionale». Unico leader della sinistra italiana a Londra, Paolo Ferrero ieri ha attraversato la città da Ex Cel, quartiere che ospita il G20 fino alla Bank Station, nel cuore della City, teatro degli scontri del giorno prima. Da un capo all’altro della città c’erano contestazioni di piazza sui temi della crisi, delle guerre, del nucleare. «E’ lo scontro tra l’alto e il basso - spiega Ferrero a Liberazione - stavolta non c’è un centro ma, se si osserva la diffusione di pratiche, cresce l’area di chi ha compreso che sono le banche, la finanza, che hanno causato la crisi». Uno degli aspetti che lo colpisce è il «livello pazzesco di polizia: c’è un controllo su chiunque sembri “diverso”. E questo mette in discussione il diritto a manifestare. Difficile, da qui, capire se la città sia ostile o solidale coi manifestanti». E, intanto, mentre si svolge l’intervista, alcuni bobbies si fiondano su quattro punk per perquisirli. Sembra che dentro il vertice, i 20 Grandi non vadano poi così d’accordo, sembra che la crisi serva, all’interno dei paesi, per riscrivere i rapporti tra le classi, e all’esterno per rimodulare i rapporti di forza tra gli stati. Le crisi del capitalismo sono sempre tentativi di ristrutturazioni. A me sembra che questa crisi sposti l’asse dall’Atlantico al Pacifico: il vero evento del summit ufficiale è l’incontro tra Usa e Cina. E Washington e Pechino si incontrano sul fatto che la Cina mette i soldi per rilanciare i consumi americani. E c’è l’accordo sul dollaro come valuta di riserva. Così come il reset delle relazioni statunitensi con la Russia è qualcosa di più di un gentlemen agreement. C’è anche il braccio di ferro tra Francia e Germania, da un lato, e la Casa Bianca e Downing Street. Sul punto delle ricette, il nodo è che Sarkozy e Merkel hanno ragione sul versante paradisi fiscali mentre Obama ce l’ha sul deficit spending. Il problema è che a tutti manca un piano sulla redistribuzione del reddito sia sul livello nazionale sia tra Nord e Sud del mondo. Senza questo le altre due ricette non delineano una via d’uscita dalla crisi ma sono un suo utilizzo strumentale. La ristrutturazione del G20, di cui parli, sembra ridimensionare oggettivamente il G8, più atlantico. Tutto ciò, sommato all’escalation di violenza da parte delle forze dell’ordine, porta Rifondazione a chiedere di annullare il summit della Maddalena. Sì, chiediamo di fermare il G8. La mia presenza qui è la continuazione di un discorso partito da Genova e proseguito fino a Belem: il movimento no global aveva ragione a Seattle e ha ragione qui. Lo dimostra la crisi. Dunque, chiediamo di cancellare il G8 in Sardegna. La logica è sempre la stessa: otto, per quanto grandi, non possono decidere per sei miliardi, ossia per quelli che pagano i prezzi della crisi. Qui in Italia, invece, Frattini mostra i muscoli e il Pd dice che è da irresponsabili chiedere di annullare quel vertice. Il problema è costruire un luogo democratico, che allarghi la base di consenso e partecipazione. Dopo la seconda guerra mondiale, ad esempio, Keynes scrisse un saggio sulle conseguenze economiche della pace, di fronte agli errori seguiti alla prima guerra mondiale. E i vincitori di quella guerra fecero Bretton Woods (il trattato che fissò la parità tra dollaro e l’oro e istituì il Fmi come istituto di investimenti pubblici) e istituirono l’Onu non il G3 (Usa, Urss e Gran Bretagna), anche se avrebbero potuto. Insomma, quest’idea che la crisi della globalizzazione la gestiscano gli stessi che l’hanno causata è una roba folle, siamo di fronte al fallimento sia delle politiche che di una formula. E’ come mettere il mostro di Marcinelle a gestire un asilo nido. Deve cambiare il punto di osservazione, da quello delle elites a quello di chi subisce la crisi. Non è un caso che l’unico continente in controtendenza sia l’America latina dove forme di governo incorporano le istanze sociali di larghe masse. Non esiste un’istituzione internazionale collegata ai lavoratori, ai popoli, ai contadini. E il G8 ribadisce la subalternità della politica ai poteri forti. A Londra, in Francia, in Grecia, domani contro la Nato a Strasburgo: c’è ancora la possibilità che il conflitto non si trasformi nella guerra tra poveri. E ora cosa dovrebbe fare il Prc? Il problema di Rifondazione è quello di costruire dentro i movimenti una lettura sul perché della crisi. C’è un tentativo di leggerla come un incidente di percorso, come un temporale o una frana. Noi sappiamo che non è così, che l’unica strada da seguire è quella della redistribuzione del reddito, dell’intervento pubblico su un’economia capace di tassare le rendite e una riconversione ambientale senza più paradisi fiscali e tutte quelle spese militari. L’altro nodo è quello di lavorare al collegamento tra le resistenze sui luoghi di lavoro, le vertenze per il welfare, le questioni ambientali ecc... Il nostro contributo è quello di favorire una connessione. La politica, se non riconnette le relazioni, è percepita come distante. Condividi