di
Isabella Rossi
Perché le donne in Italia non denunciano la violenza in famiglia? Perché la legge spesso non riesce a punire i colpevoli e a proteggere le vittime? Questi due quesiti al centro di una ricerca svolta dalle avvocate di 60 centri antiviolenza e presentata il 20 marzo scorso al Consiglio Superiore della Magistratura. Relatrice della ricerca Teresa Manente. L’avvocata a Perugia rappresenta il Comitato 8 marzo, parte civile nel processo per l’omicidio di Barbara Cicioni ed è referente nazionale per le questioni penali del gruppo giustizia formatosi all’interno dell’associazione D.i.r.e, Donne in rete contro la violenza alle donne, in cui si sono riuniti i 60 centri antiviolenza.
L’indagine, svolta sul territorio nazionale e durata oltre un anno, rappresenta un grande traguardo per le 200 avvocate dei centri che finora hanno accolto oltre 110mila donne, di cui oltre 10 mila nel 2008 (572 i maltrattamenti rilevati in famiglia). E’ la prima volta, infatti, nella storia della Repubblica Italiana che tale attenzione venga riservata a soggetti non istituzionali impegnati nella tutela dei diritti delle donne. Quello dei centri antiviolenza, del resto, è un osservatorio privilegiato.
Avvocata Manente le violenze fisiche reiterate sulle donne sono, secondo l’Istat, nel 69,7% ad opera dei partner. Ciononostante nel 93% dei casi la violenza da partner non viene denunciata. Perché?
I problemi sono vari , innanzitutto manca la conoscenza profonda del fenomeno della violenza domestica, quindi la formazione e specializzazione su un tema così complesso e problematico come quello dei maltrattamenti da parte del partner o ex partner. Le donne che si rivolgono a noi ci raccontano che a volte le forze dell’ordine per mancanza di formazione sul tema, tentano di dissuaderle dal denunciare il partner, ancor più se padre dei loro figli, e arrivano persino ad avvisarlo per tentare una conciliazione, ignorando che in caso di maltrattamenti in famiglia non vi può mai essere un accordo valido perchè la donna è in una situazione di subordinazione e nessuna parità esiste tra i due soggetti. Gli uomini maltrattanti, una volta venuti a conoscenza della querela, percepiscono che la vittima è uscita dal loro controllo e dal loro potere e la aggrediscono con maggior violenza, ponendola in una situazione di maggior impotenza e sudditanza. Spesso questa caratteristica propria agli uomini violenti, quella cioè di aumentare la violenza in caso di ribellione, non è conosciuta e con la prassi del tentativo di conciliazione si mette la donna a serio rischio di vita. La persecuzione, e a volte l’omicidio delle donne da parte degli ex partner, al momento e dopo la separazione, è tristemente reale e statisticamente provata. Nel 2008 sono state uccise 113 donne. I maltrattamenti non possono essere trattati come semplici conflitti coniugali, dalla nostra ricerca risulta, invece, che ciò accade dal nord al sud. Inoltre, nelle querele troppo spesso vengono riportati solo i fatti ultimi che hanno spinto la donna a sporgere denuncia ma non vengono riportati tutti i fatti delittuosi da lei precedentemente subiti, e ciò non permette di far emergere l’abitualità del maltrattamento, indispensabile per la configurazione della fattispecie penale del reato. In questo modo le querele vengono trattate dal giudice di pace e l’applicazione delle misure cautelari non è più possibile mentre, contemporaneamente, il rischio di reiterazione della violenza diventa ogni giorno di più una certezza.
Cosa succede quando ai maltrattamenti in famiglia è connessa una violenza sessuale?
La tendenza anche qui è dissuadere la donna dal denunciare la violenza sessuale se compiuta dal marito o convivente. Molte volte le donne che si rivolgono ai centri ci raccontano che le forze dell’ordine a cui si erano rivolte l'avevano informate che non era possibile denunciare la violenza sessuale subita perchè erano decorsi oltre 6 mesi dal fatto, dimostrando così di ignorare che il reato di violenza sessuale, se connesso ai maltrattamenti è procedibile d'ufficio.
segue II parte intervista
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