di Franco Arminio.

Vivere nel luogo in cui sei nato, nella casa in cui sei nato, è una cosa rischiosa. È come giocare in fondo al pozzo. Si nasce per uscire, pervagare nel mondo. Il paese ti porta alla ripetizione. In paese è facile essere infelici. I progetti di sviluppo locale devono tenere conto di questo fatto: non li possono fare da soli i rimanenti, perché in paese non c’è progetto, c’è ripetizione. In un certo senso il paese ti mette nello schema dell’oltranza e non in quello della brevità. È difficile essere concisi. È difficile essere innovatori. In genere ognuno fa quello che ha sempre fatto, giusto o sbagliato che sia. Se nella pasta ci vogliono due uova piuttosto che una, comunque tutti continueranno a usarne due. E chi beve non troverà nessun incentivo a smettere. E chi si guasta lo stomaco mangiando troppo continuerà a mangiare troppo. Ci sono due abitanti tipici, il ripetente e lo scoraggiatore militante. Spesso le due figure sono congiunte, nel senso che lo scoraggiatore è per mestiere abitudinario, non cambia passo, continua a scoraggiare, è appunto un militante. Più difficile essere militanti della gratitudine, della letizia. È come se la natura umana in paese fosse più contratta, non riuscisse a diluirsi. E si rimane dentro un utero marcito. Il paese è pericoloso, bisogna saperlo, è un toro con molte corna. Allora se da una parte la città è disumana, il paese è troppo umano, non ti libera mai dall’umano e dunque dal senso della morte e dal senso della ripetizione. Alla fine nel suo senso più profondo la vita è quella cosa che può finire in qualsiasi momento, ma che intanto prosegue più o meno allo stesso modo. E questo in paese è più chiaro. In città è come se agisse un principio diversivo, come se ci fossero altre possibilità. In realtà non ci sono, ma è come se avessi l’illusione che ci siano.
Fatte queste premesse, come si fa a fare progetti di sviluppo locale? La chiave è dare forza a nuove forme di residenza. Il paese deve essere scelto e non subito. Chi arriva da lontano ha un piglio, una disponibilità che non trovi in chi è affossato nel suo paese. Il residente a oltranza anche quando è animato da buona volontà tende a impigliarsi nelle proprie nevrosi. Il paese tende a essere nevrotico. Il paese non sta bene, questo è il punto. E non ha voglia di curarsi. Lo sviluppo locale si può fare partendo da queste premesse. Allora bisogna aprire porte che non ci sono, bisogna esercitarsi nell’impensato, bisogna essere rivoluzionari se si vuole riformare anche pochissimo. I paesi non moriranno, anche grazie ai loro difetti, grazie al loro essere luoghi che tutelano le malattie di chi li abita. In paese si fallisce, ma in un certo senso non si fallisce mai perché si fallisce a oltranza. È come dormire sempre nelle stesse lenzuola. Bisogna arieggiare il paese portando gente nuova, il paese deve essere un continuo impasto di intimità e distanza, di nativi e di residenti provvisori. Questo produce una dinamica emotiva ed anche economica. E la dinamica è sempre contrario allo spopolamento: bisogna agitare le acque, ci vuole una comunità ruscello e non una comunità pozzanghera.
Bisognava aprire emotivamente i paesi, dilatare la loro anima e invece la modernità incivile degli ultimi decenni li ha aperti solo dal punto di vista urbanistico, si sono sparpagliati nel paesaggio, a imitazione della città, ma è rimasta la contrazione emotiva. Il paese va aperto tenendolo raccolto. Lo sviluppo locale si fa ridando al paese una sua forma, ricomponendolo, rimettendolo nel suo centro, ma nello stesso tempo c’è bisogno di apertura. Lo sviluppo lo può fare chi lo attraversa il paese con affetto, non chi ci vive dentro come se fosse una cisti, un’aderenza, un cancro.
Il mondo ha bisogno di paesi, ma non come luoghi obbligati, come prigioni per ergastolani condannati a vivere sempre nello stesso luogo. Il paese deve essere organizzato come se fosse un premio, non come una condanna. Lo sviluppo locale si fa pensando a un luogo dove si premia un’esistenza, si dà una possibile intensità, quella che viene dall’essere in pochi, quella che viene dall’avere tanto paesaggio a disposizione. Allora non si dà sviluppo locale facendo ragionamenti quantitativi, mettendo il pensiero economico metropolitano nell’imbuto del paese. Ci vuole un pensiero costruito sul posto, ma non solamente dagli abitanti del posto. Il segreto è l’intreccio e deve essere un intreccio reale, non il prodotto di un’assemblea, di un incontro estemporaneo. Chi vuole salvare i paesi deve entrarci dentro e in un certo senso deve buttare fuori chi ci vive dentro. Si deve realizzare uno scambio continuo, qualcosa di simile al meccanismo del sangue venoso e di quello arterioso. Lo sviluppo locale deve imitare la circolazione del sangue. In un certo senso si tratta di mettere mano agli organi interni. Spesso i paesi più belli sono quelli vuoti, come se fossero uccelli svuotati dello loro viscere. È come se la parte viscerale del paese fosse quella più malata, quella più accanita a tutelare la sua malattia. Un’azione di sviluppo locale allora deve essere delicata ma anche dura, deve togliere al paese i suoi alibi, i suoi equilibri fossilizzati, deve cambiare i ruoli: magari le comparse possono essere scelte come attori principali e gli attori principali devono essere ridotti a comparse. E allora non si fa sviluppo locale senza conflitto. Se non si arrabbia nessuno vuole dire che stiamo facendo calligrafia, vuol dire che stiamo stuccando la realtà, non la stiamo trasformando.

Il fuoco centrale è la terra

I progetti di sviluppo locale negli ultimi anni non hanno dato grandi risultati. Ci sono fontane restaurate che sono di nuovo in disuso. Ci sono piazze molto volte ripavimentate, ma mentre si posavano le pietre, gli abitanti di queste piazze posavano la loro vita al cimitero. E i ragazzi cercavano un Nord che non c’è più. Qui parlo di Sud, ma il tema dello spopolamento non è il tema del Sud, è il tema delle montagne. E allora ragionare di montagne vuole dire capire che spazio sono le montagne. Forse più che dello sviluppo, le montagne hanno bisogno della gioia. Nei progetti di sviluppo locale non si parla mai delle gioia. Lo sviluppo ha bisogno di schede, è inteso come un risultato alla fine di un processo. La gioia è intesa come qualcosa di intimo, di ineffabile. Forse è venuto un tempo in cui la gioia deve essere immessa nello spazio sociale come elemento cruciale. Anche salutare un vecchio è un progetto di sviluppo locale. Non ha senso lavorare a progetti in cui tutto si risolve in una dimensione monetaria. Il denaro tende a scendere a valle, non rimane sulle montagne. Losviluppo locale deve fecondare passioni. Se ti regalo una mungitrice e tu pensi alle Mercedes più che alla mucca, non ho risolto nulla. Se lavoriamo a un progetto per anni e non ci accorgiamo che un forno sta per chiudere vuol dire che stiamo facendo retorica dello sviluppo, vuole dire descrivere lo sviluppo senza darlo. È come accendere una candela in una grotta molto grande: le candele descrivono la luce, non la danno. I governi in questi anni sono stati profondamente disonesti con i paesi e le montagne. Non si può tollerare che un caffè costa molto di più di un uovo fresco. E un quintale di grano costa meno di un shampoo dal parrucchiere.
Il fuoco centrale dello sviluppo locale non può che essere la terra. È intollerabile che l’Italia importa un milione di vitelli. Dobbiamo mangiare la nostra carne, mangiarne poca, ma buonissima. I paesi devono produrre cibo di altissima qualità, i paesi vanno concepiti come farmacie: aria buona, buon cibo, silenzio, luce. E poi il soffio del sacro. Dove si è in pochi nessun cuore è acqua piovana. Ma bisogna immettere enzimi dall’esterno. Bisogna portare nelle montagne i pionieri del nuovo umanesimo. Più che mandare i soldi, bisogna trovare il modo di portare nei paesi e nelle montagne le persone giuste. E far rimanere le persone giuste. Allora un progetto di sviluppo locale ragiona di persone, non ragiona di progetti, i progetti vengono dopo. È molto discutibile questa logica che prima si fanno i progetti e poi si vede se c’è qualche persona che li può interpretare. A volte si fanno sceneggiature staccate dalla realtà. Come se nel film si potessero trovare delle scimmie al Polo Nord.
E poi c’è la questione del tempo. Un progetto di sviluppo locale non si elabora e poi si realizza. Bisogna cominciare, magari con un pezzo piccolissimo, e mentre si realizza qualcosa si continua a elaborare il progetto. Mentre immaginiamo come razionalizzare la sanità, intanto ripariamo le buche sulle strade.
Giustamente si dice che ci vogliono i servizi e ci vuole il lavoro, altrimenti la gente va via. Ma il rischio sono sempre le astrazioni. Ci sono servizi inutili e lavori che non servono a niente. Bisogna partire da chi c’è in un certo luogo e da chi potrebbe arrivare. E allora ecco chesi ragiona su certi servizi e su certi lavori. Magari in un paese serve un barbiere, non serve un centro di documentazione per lo sviluppo locale. Magari in un paese serve un infermiere che va in giro per i vicoli, non serve un progetto di telemedicina che serve a far girare carte che poi nessuno guarda.
Ecco che la visione poetica dello sviluppo locale in realtà si rivela molto più concreta dei tecnicismi che ci hanno funestano negli ultimi decenni. Olivetti faceva lavorare nella sua fabbrica artisti e scrittori. E la sua fabbrica da un paese era diventata avanguardia mondiale. Forse quando parliamo di sviluppo locale sarebbe opportuno ripassarsi la lezione di Olivetti e la sua idea di comunità. Olivetti puntava sulle persone. L’Italia interna ha bisogno di persone, deve trovare e incoraggiare le persone che contengono avvenire. Capisco che ci vogliono strumenti, bisogna ingegnerizzare bene le questioni per evitare che restino sulla carta, ma non si può tollerare che mentre mettiamo a punto i nostri schemi le persone perdono fiducia, vanno via.

Il sessantotto della desolazione

Per fermare lo spopolamento dei paesi bisogna che lo Stato vada dall’oculista. Lo Stato non vede bene, ha come dei buchi nel suo sguardo. Lo Stato accumula carte, ma lo fa un po' alla cieca. Capisce che nei territori ci sono innovatori e conservatori, ma poi non ha strumenti per premiare gli innovatori. Per aiutare le aree rurali bisogna intrecciare cose che stanno separate: il giovane nel bar non sa nulla di quello che fa il funzionario negli uffici regionali. Sono due posture che non si incrociano. Lo Stato può riempire un’aula di avanzatissime tecnologie digitali, ma poi ha un insegnante che non ha voglia di usarle o che è troppo stanco. E lo stesso vale per i medici. La telemedicina è una cosa buona, ma bisogna fare qualcosa contro la stanchezza e l’ingordigia dei medici. Non si possono visitare cento persone in un giorno, come si fa ad ascoltarle per bene? Quando si parla di sanità nelle zone di montagna bisogna partire dalle persone che operano in quei luoghi, dalla motivazione che hanno. Ancora una volta lo Stato è cieco, non vede, non sa, non sceglie. Nessun medico è stato mai cacciato perché tratta male i pazienti. E nelle aree interne spesso la protervia dei potenti si accompagna a una soggezione dei cittadini verso il potere, a una cecità nel vedere i propri diritti. Pensiamo alla condizione delle strade. È intollerabile, ma non si segnalano sommosse per reclamare la chiusura quanto meno delle buche. Nelle aree interne del Sud è intollerabile anche la condizione dei ragazzi e delle ragazze: qui lo Stato si comporta più o meno in questo modo: non dà e non chiede nulla. E tutta la faccenda resta sulle spalle dei genitori e dei nonni. Lo Stato ha nella sua struttura ideologica di fondo un pregiudizio contro le aree rurali: è come se si desse per scontato che la vita del mondo si debba svolgere nella grandi metropoli. E quando si destinano risorse alle aree rurali a volte lo si fa con l’idea che l’area rurale si deve riempire di qualcosa, si deve rimediare a una qualche mancanza. Questo è vero a volte e a volte no. Certo che bisogna riempire di servizi le aree che ne sono state private o che non li hanno mai avuti, ma lo stesso discorso non vale per il paesaggio o i centri storici. E quello che forse poteva valere venti anni fa adesso non ha senso. Non ha alcun senso fare un portale per valorizzare dei prodotti che poi nessuno produce. Il portale non è un’innovazione, è un ferro vecchio. E anche sulla tradizione è arrivato il momento di chiarirsi le idee. Non ha senso spendere soldi per l’ennesimo museo della civiltà contadina. La civiltà contadina va riattivata, non va musealizzata. La terra non va messa negli scaffali, la terra deve fiorire. Lo Stato è cieco rispetto alle differenze tra i luoghi. Quello che vale per un paese non vale per un paese vicino. E poi c’è la questione dei tempi. Quello che andava bene cinque anni fa non va più bene adesso. E anche il tema dello spopolamento non va visto solo in termini quantitativi. Se va via uno scoraggiatore militante il paese ci guadagna. Il problema è la fuga dei sensibili, la polvere che cade sui cuori luccicanti. C’è uno spopolamento cognitivo nelle aree rurali che impone la centralità della scuola. Investire sull’istruzione di un ragazzo è più importante che ripavimentare una piazza. Non servono cantieri, servono canti, servono sorrisi più che betoniere. È chiaro che affermazioni di questo tipo possono essere facilmente catalogate come vacue ed evasive dai fanatici dello sviluppismo. Ed è evidente che formare un ragazzo che poi va via è anche una beffa per un territorio. Allora il punto è discutere, costruire una sorta di sessantotto della desolazione, capire che il margine è fecondo, che il ritardo e l’errore possono essere enzimi alternativi, crepe per portarci fuori dall’inferno delle società avanzate. Sembra velleitario fare un sessantotto in posti dove crescono solo i cimiteri, ma non bisogna mai dimenticare la fratellanza di amore e morte: l’Italia interna oggi è bellissima anche per questa inedita adiacenza di fregi e sfregi. Di questo bisogna discutere, di quello che i paesi sono adesso. Bisogna farlo partendo dalle percezioni più che dalle opinioni. Ci vogliono risorse e ci vogliono visioni: intimità e distanza, scrupolo e utopia. Le aree interne, le terre alte dell’Italia non sono luoghi minori, sono luoghi enormi. E solo una clamorosa miopia geografica porta a renderle invisibili pur essendo il cuore della nazione.

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