di Maria Pellegrini.

Lo storico Erodiano di origine siriaca, vissuto a cavallo tra la fine del II secolo e la metà del III secolo d. C. (scarse le notizie riguardanti la sua vita) scrive in lingua greca una “Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio”, un’opera preziosa che nell’età dell’Umanesimo il poeta e filologo classico Poliziano traduce in latino. La prima versione italiana risale al 1551 e la successiva con un salto di secoli al 1821. Si deve arrivare al 1967 per leggerne una più moderna, pubblicata dall’editore Sansoni, a cura di Filippo Cassola, con greco a fronte. Di recente questo testo è stato riproposto dall’editore Einaudi (pp. 312, euro 28,00) con una nuova prefazione di Luciano Canfora che “mette in luce le interpretazioni del tardo impero secondo le varie epoche, le ideologie e i diversi modelli di classicità che si sono succeduti dalla fine dell’Ottocento a oggi”, come si legge nel risvolto di copertina.

Erodiano racconta la storia dalla morte di Marco Aurelio (180) all’elezione di Gordiano III (238). Sono quasi sessant'anni densi di avvenimenti turbolenti. Luciano Canfora nella prefazione ricorda che il III secolo è sempre stato etichettato dagli storici come “età dell’angoscia”; in effetti, sono tempi tumultuosi che generano insicurezza. Il potere politico è in preda a una paurosa instabilità: l’impero comincia a disgregarsi e inizia un periodo di brutalità e violenze destinate a modificare profondamente la sua struttura morale e politica.

L’opera si apre con un quadro tutto elogiativo del regno di Marco Aurelio che per Erodiano costituisce il modello dell’ottimo imperatore a confronto del quale nessuno dei suoi successori, a partire dal suo stesso figlio Commodo, è degno di apprezzamento. Quando muore, lascia “il rimpianto agli uomini del suo tempo, e un eterno ricordo alle generazioni future”. Gli succede il figlio Commodo, che si rivela l’opposto del padre. L’uno, di alta levatura morale, rappresenta gli ideali dell’aristocrazia, l’altro ha atteggiamenti autocratici e accetta il concetto domizianeo dell’imperatore-dio, ma allo stesso tempo mostra l’inclinazione a partecipare ai giochi gladiatori graditi al popolo. Erodiano lo raffigura in modo radicalmente negativo. Accolto con favore dai sudditi, subito delude le aspettative mostrandosi perverso e crudele. Conclude rapidamente le operazioni militari alle frontiere settentrionali e, raggiunto con i barbari un accordo ritenuto ignominioso, rientra a Roma, dove si disinteressa degli affari di governo, sperpera le risorse economiche con feste e spettacoli mentre la situazione economica diventa sempre più drammatica. Erodiano accentua il carattere spettacolare di Commodo nell’arena, il suo protagonismo, l’abilità e soprattutto le sue stravaganze indegne di un sovrano che accrescono l’ostilità del Senato e determinano la perdita dell’affetto dei suoi sostenitori: nel 192 è prima avvelenato, poi strangolato. Il popolo, come succede sempre alla morte dei dittatori “si abbandona a uno sfrenato entusiasmo”.

A Commodo, segue un breve periodo di anarchia militare (192-193). Sono gli eserciti stanziati nelle province fedeli al proprio comandante piuttosto che al potere centrale, a nominare gli imperatori. L’acclamazione a imperatore del vecchio senatore Pertinace suscita ottime speranze nei sudditi, ma dopo tre mesi è ucciso dai pretoriani che rimpiangono “le rapine, le violenze, l’incontrollata dissolutezza concesse loro sotto la precedente tirannide”. A partire da questo momento la storia successiva dell’impero è caratterizzata da una crescita continua del potere degli eserciti. La conseguenza è l’aprirsi di una crisi politica gravissima: gli imperatori si susseguono l’uno dopo l’altro, spesso più imperatori contemporaneamente, ciascuno dei quali considera gli altri usurpatori. I capi militari guerreggiano tra loro per il potere politico, l’esercito, un tempo servitore dell’impero, ne diventa il padrone. Nel 193 quattro sono i pretendenti alla successione: il ricchissimo Didio Giuliano, che riesce a comprare il favore dei pretoriani, Pescennino Nigro, proclamato imperatore dai legionari della Siria, Clodio Albino da quelli di Britannia, ma è Settimio Severo, appoggiato dai soldati della Pannonia - ai quali assicura favori e concessioni - a togliere di mezzo con campagne vittoriose i tre imperatori eletti dai loro eserciti “vincendoli con il suo valore”. Scatena il suo odio soprattutto contro i seguaci di Albino: dopo averlo sconfitto e ucciso manda a Roma la sua testa ordinando di esporla. Riesce a stabilire l’unità dell’impero, la sua elezione è legittimata dal Senato. Dopo diciotto anni di regno durante il quale svolge una politica assolutista e antisenatoria, favorisce la plebe, il ceto equestre e l’esercito. Valoroso e infaticabile combattente compie importanti imprese militari contro i Parti e i Caledoni in Britannia. Durante questa spedizione si ammala e muore lasciando ai suoi due figli potenza militare e ricchezza. Ma essi si odiano, si spartiscono l’impero, tuttavia Caracalla desidera governare da solo e uccide il fratello Geta e fa strage di chi parteggia per lui: “i loro cadaveri, turpemente trascinati, e gettati su carri, sono portati fuori città, accatastati alla rinfusa e bruciati in un sol rogo”. Segue la narrazione dei tanti misfatti di questo imperatore che mira soprattutto a essere amato dai soldati e che ha di sé una grande opinione tanto da sentirsi un novello Alessandro Magno, ma a Erodiano è stato rimproverato il silenzio sulla “constitutio antoniniana” emanata da Caracalla, pur avendo egli affermato nella premessa all’opera la necessità per lo storico di avere sempre di mira la verità. Altra lacuna è non citare la costruzione delle grandiose terme che portano ancora il suo nome, mentre con dovizia di particolari riporta il progetto di congiura ordita dal suo prefetto del pretorio Macrino che, riuscito nel suo intento, è proclamato subito imperatore. Anch’egli non conquista l’appoggio dei soldati; dopo soltanto un anno approfittano della situazione di malcontento alcune donne siriache della famiglia dei Severi, ambiziose e intelligenti, che convincono senatori e soldati a uccidere Macrino e proclamare imperatori due giovani della propria famiglia: Avito Bassiano, ritenuto figlio naturale di Caracalla (che si fa chiamare Elagabalo perché sacerdote del dio sole, un culto orientale), poi dopo la sua morte per volontà dei soldati, Severo Alessandro che subisce la stessa sorte. È il turno di Massimino il Trace, “uno che proviene dalle zone più interne della Tracia ed è di stirpe mezzo barbaro” . Erodiano negli ultimi due libri della sua opera storica espone minuziosamente i fatti avvenuti sotto quest’imperatore accentuandone i tratti negativi: la spoliazione delle città per distribuire le ricchezze al popolo e per finanziare feste e spettacoli, e poi l’appropriazione di beni che appartengono alla comunità e ai templi, spingendo le masse all’odio e al desiderio di rovesciare la sua crudele tirannide. Ciò accadde alla fine del suo terzo anno di regno, mentre l’esercito assedia senza speranza Aquileia, alcuni soldati lo uccidono, non risparmiando neppure il figlio e tutti i suoi sostenitori: “chiunque vuole può oltraggiare e calpestare i cadaveri che sono poi abbandonati come cibo per cani e per uccelli. Le teste di Massimino e del figlio sono inviate a Roma”.

Ancora tre imperatori: Gordiano I e Gordiano II, padre e figlio, morti entrambi: il primo suicida dopo aver saputo della morte in battaglia di suo figlio e poi il giovanissimo Gordiano III di tredici anni.

 

Quali conclusioni possiamo trarre dalla lettura di quest’opera storica? E quale giudizio sul suo autore? Si arguisce che Erodiano non ama gli imperatori eletti dai soldati, da lui definiti apertamente tiranni che esercitano arbìtri e crudeltà; i soldati stessi che aspirano a un governo dispotico non sono visti con simpatia che è rivolta piuttosto ai ceti abbienti. Appartente egli stesso a una classe agiata che vede la plebe “tanto stolta e maligna da invidiare i detentori di grandi fortune”, Erodiano scrive una storia di parte, esprime le idee del suo ceto sociale, è un uomo d’ordine, fautore della dignità del senato e dell’imperatore, spesso si mostra fazioso per screditare la figura di chi non è nelle sue corde.

Sullo stile, due sono le tesi a riguardo, Cassola scrive “è quanto di peggio possa immaginarsi: nessun autore è riuscito come lui nella difficile impresa di conciliare i più vieti artifici della retorica con un linguaggio povero, sciatto e banale”; Canfora riconosce invece allo scrittore “solida formazione letteraria” e alla sua prosa “grande chiarezza”. Entrambi i giudizi trovano riscontro all’interno dei fatti narrati. Troppo lungo sarebbe citare i singoli passi dove la fiacchezza della narrazione si anima nella descrizione dei vizi e delle crudeltà di alcuni imperatori, nella dovizia di particolari riguardanti i progetti di congiure e la brutalità nell’eseguire le sentenze di morte; altrettanto numerosi sono i passi dove la retorica diventa magniloquenza come nei tanti discorsi disseminati nel racconto, o nelle moraleggianti sentenze, o nella drammatizzazioni di alcuni episodi.

Erodiano nella premessa assicura di avere raccolto fedelmente fatti storici che non ha appreso da altri, ma di cui è stato testimone. Manca a tutt’oggi un sistematico commento storico e storiografico alla sua opera. Egli si pone come storico attendibile, ma al di là dei buoni propositi, i giudizi sulla sua attendibilità sono ancora in discussione, gli si rimproverano imprecisioni e superficialità di giudizio, divergenza da altre fonti storiche.

Il pregio della storia narrata da Erodiano è di aver rappresentato in tutta la sua complessità il momento di crisi che attraversa il mondo romano: i costi delle continue guerre costringono le autorità centrali a un fiscalismo esasperato e a requisizioni, la burocrazia pervade ogni aspetto della vita sociale, il costituirsi di una vera e propria casta dei grandi condottieri, dei soldati e degli ufficiali mina il potere imperiale. Acuiscono la crisi l’affermazione di culti orientali e la divisione dell’impero tra occidente e Oriente, in conflitto per la supremazia.

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