di Maria Pellegrini.

Per ripercorrere le tappe, a grandi linee, della storia delle biblioteche antiche dobbiamo risalire molto indietro nel tempo. Le prime raccolte di testi scritti furono piuttosto archivi statali custoditi nei templi dai sacerdoti che vi aggiunsero opere di tipo religioso. Alla fine del XII secolo a. C. troviamo notizie di una biblioteca voluta da Tiglatpileser I, re di Assiria, che la collocò nel tempio di Assur. Nel 3000 a. C. sono state trovate durante gli scavi in Egitto, Mesopotamia, Siria, Asia Minore tavolette di argilla (sulle quali si incidevano i caratteri della scrittura) in gruppi di migliaia di pezzi contenenti documenti relative alla registrazione di questioni pratiche, quali accordi di matrimonio, ricevute, sentenze giudiziarie, archiviati per essere consultati in futuro, e in Mesopotamia esemplari appartenuti probabilmente a una scuola con trascrizioni di inni ed esercizi di scrittura. In scavi eseguiti in Siria nel 1980 sono venute alla luce tavolette risalenti al 2300 a. C. che dovevano appartenere a una biblioteca, e così anche in altri luoghi d’Oriente. La prima vera biblioteca la organizzò un altro re assiro, Assurbanipal (668-627 a. C.) che la accrebbe con la confisca di raccolte private, e soprattutto con il bottino di libri razziati dopo la vittoria su Babilonia.

In Grecia i primi libri apparvero all’inizio del V sec. a. C. ed erano costituiti da rotoli di carta ottenuta dal papiro, che l’Egitto, ricco di questi alberi, esportava nel mondo greco. Fogli di papiro, incollati l’uno dopo l’altro, formavano una lunga striscia avvolta a un bastoncino di legno o di osso. Si ottenevano così un rotolo che chiamato “volumen”, (volume, dal latino “volvere” arrotolare) costituiva il libro stesso. La lettura consisteva nello svolgere il rotolo alla cui estremità si applicava un cartellino con il nome dell’opera e dell’autore.

Nella seconda metà del IV secolo a. C. Aristotele, filosofo di immensa cultura i cui scritti riguardavano tutte le arti e le scienze dell’epoca, aveva messo insieme una tale quantità di opere di vario argomento: poesia, scienze, storia, filosofia e anche una collezione delle costituzioni politiche di 158 città e un catalogo di tutto ciò che costituiva la sua raccolta. Un modello organizzativo che un discepolo di Aristotele, Demetrio Falereo, suggerì - così si è supposto - a Tolomeo I, re d’Egitto, l’idea di creare una biblioteca ad Alessandria, la splendida città sul delta del Nilo fondata da Alessandro Magno nel 331 a.C. e di costruirvi accanto un edificio, il Museo, dedicato alle Muse, ossia alle divinità protettrici delle arti e delle scienze, che divenne luogo d’incontro tra dotti, e anche di insegnamento: una grande istituzione culturale, un prestigiosissimo centro scientifico-letterario che per secoli attirò i migliori studiosi del mondo antico.

La biblioteca fu arricchita di molti volumi tra IV e I secolo a. C. (ne conteneva 700.000). Dopo la metà del II secolo le complesse vicende interne e i disordini sociali non permisero ai Tolomei di proseguire la politica culturale dei predecessori e la Biblioteca ed il Museo persero progressivamente il ruolo che avevano ricoperto in passato. La fine della biblioteca ancora oggi è avvolta nel mistero. Luciano Canfora (“La biblioteca scomparsa”) afferma che è storicamente inattendibile l’accusa mossa ai soldati di Giulio Cesare di averla incendiata (48/47 a.C.). Ad andare a fuoco furono invece i 40.000 rotoli contenuti in magazzini presso il porto, in attesa di essere trasportati a Roma; un incendio invece la distrusse in gran parte durante la guerra fra l’imperatore romano Aureliano e Zenobia, regina di Palmira nel 270 d.C., come documenta lo storico Ammiano Marcellino. Alcuni studiosi, basandosi su fonti che attestano la sopravvivenza del Museo fino al IV secolo, hanno ipotizzato che la distruzione totale della biblioteca vada ricondotta ad una data vicina al 400 d. C.

I Romani non pensarono a creare un’istituzione culturale simile, ma verso la metà del II secolo a. C. famiglie aristocratiche possedevano biblioteche private che mettevano a disposizione di ospiti selezionati. Durante le guerre in Grecia e in Asia Minore il saccheggio divenne il mezzo di requisire volumi. Emilio Paolo, detto il Macedone (vincitore della battaglia di Pidna nel 168 a. C. durante la terza guerra macedonica) saccheggiò molte città, portò a Roma un enorme bottino, ma volle tenere per sé la biblioteca del re Perseo che costituì la prima in Roma di cui si abbia notizia.

I personaggi dell’alta società romana più colta avevano sempre amato possedere i libri, considerati oggetti di grande valore perché fonti del sapere. Il contatto con il mondo greco affascinava molti esponenti della classe dirigente romana e la fornitissima biblioteca del monarca macedone, ricca di tutte le opere del pensiero greco, facilitò e velocizzò l’incontro tra le due culture, tanto che Orazio scrisse la famosa frase “Grecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio” (la Grecia, conquistata [dai Romani], conquistò il rozzo vincitore e introdusse le arti nel Lazio agreste).

Nel primo secolo a. C. Silla conquistò Atene (86 a.C.), s’impadronì della ricca raccolta di un bibliofilo, che comprendeva opere di Aristotele e del suo successore Teofrasto. Dopo la sua morte il figlio Fausto, poco interessato ai libri, non seguì l’esempio paterno e li cedette a un bibliotecario che la riorganizzò e incaricò uno studioso di revisionare i testi.

Licinio Lucullo, generale romano, dopo le campagne militari nella parte settentrionale dell’Asia Minore, si era ritirato a vita privata e aveva dotato le ville di biblioteche ricche di libri saccheggiati nelle sue campagne di guerra, e le aprì a tutti gli studiosi. Leggiamo in Plutarco: “Deve essere ricordato ciò che Lucullo fece per organizzare le biblioteche. Raccolse molti libri, ma fu ancora più lodevole per averle aperte a tutti; le colonnate e le sale tutt’attorno divennero accessibili ai letterati greci senza restrizioni, i quali arrivarono lì quasi si trattasse di una riunione delle Muse, e passavano insieme intere giornate”.

Possiamo farci un’idea della biblioteca di Lucullo, grazie a un ritrovamento avvenuto, circa tre secoli fa ad Ercolano, la città ai piedi del Vesuvio sepolta sotto una colata di fango in seguito all’eruzione del 79 a.C. Si trovarono i resti di una splendida villa che prese il nome di “Villa dei papiri” con una biblioteca annessa che replicava in scala ridotta i modelli di quella di Alessandria: una parte interna era destinata alla conservazione dei testi (sugli scaffali erano poste pile di rotoli di papiro, 1800 in tutto), e un porticato esterno era adibito alla consultazione. Molti papiri scritti in greco erano opere di Filodemo un filosofo della scuola epicurea che visse a Roma e in Italia dal 75 al 40 a.C. Si suppone perciò che la villa appartenesse a L. Calpurnio Pisone un influente aristocratico studioso della filosofia epicurea.

Biblioteche private costituite a Roma non attraverso bottini di guerra, ma messe assieme da cittadini colti, benestanti e disposti a spendere il denaro in libri furono quelle di Cicerone, Attico e Varrone, vissuti tutti nell’età di Cesare, che le aprirono a studiosi per la consultazione. Con il passare del tempo accanto alle opere di autori greci essi aggiunsero anche testi latini.

Soprattutto dal carteggio con Attico sappiamo che Cicerone si dedicò con impegno all’allestimento di biblioteche per le sue ville di Tuscolo, Formia, Cuma. Nelle sue lettere, soprattutto quelle inviate all’amico Attico, egli ci informa sulle sue collezioni di libri che era così vasta da richiedere l’opera di esperti aiutanti per l’organizzazione; il personale addetto alle sue biblioteche era costituito da schiavi greci utilizzati per il riordino degli scaffali, o la riparazione dei rotoli danneggiati, l’incollatura dei fogli di papiro, ma i più qualificati avevano il compito di copiare i testi che egli poi distribuiva agli amici.

Tito Pomponio Attico allestì la biblioteca nella sua villa sul Quirinale, ereditata dallo zio materno. Amico di Cicerone, che affidava a lui la sorte di ogni suo manoscritto, Attico, smisuratamente ricco, possedeva una ricca collezione d’arte e di libri. Trattandosi di un editore e mercante librario, possiamo presumere che possedesse sia gli originali che le copie di molte opere. Tra i suoi schiavi c’erano fanciulli eruditi, lettori e copisti, in genere di origine greca che lo aiutavano nella gestione della biblioteca e della produzione di copie. Questa manodopera specializzata assicurava alla sua attività diffusione di quanto da lui fosse pubblicato. Nei suoi laboratori oltre ai copisti aveva correttori di bozze e - in anticipo di millenni - seguiva tecniche imprenditoriali innovative, cioè come ottenere il diritto esclusivo di alcune opere di ottimo livello, concesso dall’Autore stesso. Da allora il commercio librario assunse un’importanza sempre maggiore.

Terenzio Varrone Reatino, celebre erudito romano scrisse il “De bibliothecis” in tre libri, opera andata perduta, che probabilmente conteneva i lavori preparatori del progetto di biblioteca pubblica commissionatogli da Giulio Cesare che coltivava l’idea di accrescere la fama culturale di Roma, ma Varrone, in seguito alla morte del suo committente, interruppe il progetto e caduto momentaneamente in disgrazia perse anche i propri libri che doveva possedere in gran quantità a giudicare dal gran numero di fonti greche da lui consultate e citate nel “De re rustica”, l’unica sua opera rimasta. L’idea fu ripresa da un seguace di Cesare, Asino Pollione che nel 39 a.C. decise di non tenere per sé la biblioteca facente parte del bottino del di una vittoriosa impresa militare, ma di farne la prima biblioteca pubblica che fu situata nel Tempio della Libertà vicino al Foro, fatto restaurare da lui stesso.

Sulle biblioteche imperiali volute da Augusto e dai suoi successori la nostra fonte è soprattutto lo storico Svetonio (70–140 d.C.). Anticipiamo soltanto qualche notizia:

Nel 28 a.C. Augusto, cessate le guerre civili, divenuto padrone incontrastato dell’Impero, aprì al pubblico una biblioteca nel portico del Tempio di Apollo sul colle Palatino, inaugurando la nuova fase delle biblioteche imperiali. Della biblioteca, chiamata Palatina, abbiamo reperti scarsi ma importanti per sapere come e fosse organizzata: due sale contigue contenevano le raccolte dei testi l’una per quelli latini, l’altra per quelli greci. La loro collocazione era situata in nicchie ricavate lungo le pareti lasciando così vuoto il centro della sala dove sedie e tavoli erano a disposizione del lettore.

Ciò che resta invece della biblioteca voluta da Traiano ci permette la ricostruzione quasi completa di essa. Era situata nel Foro di Traiano lungo il colle Capitolino e di esso faceva parte anche la colonna Traiana tuttora visibile.

Fu l’ultima concepita come luogo a se stante, da allora in poi le biblioteche furono annesse alle terme dove affluiva un pubblico numeroso che aveva a disposizione i servizi di uno stabilimento termale e di un centro culturale.

La rivoluzione digitale ha reso l’approccio al sapere e alla lettura più rapido, causando un allontanamento dai libri e dalle biblioteche a favore dei sistemi digitali, infatti gli acquisti di smartphone sono cresciuti del 145,8% e la spesa per l’acquisto dei libri è crollata del 25,3%. Coloro che hanno trascorso molto tempo nelle biblioteche per la propria formazione e cultura, hanno l’impressione che sia una grande perdita la non frequentazione di un luogo fisico dove regna il silenzio anche se non si è soli e si è accomunati dal desiderio di accrescere le proprie conoscenze. Le biblioteche sono state definite spesso “tempio del sapere”, “deposito delle memorie”, “medicina per l’anima” o come ha scritto Marguerite Yourcenar “granai pubblici dove ammassare riserve contro l’inverno dello spirito”.

Nota: l’immagine è una ricostruzione immaginaria di una biblioteca antica

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