LETTERA APERTA AI 68 SESSANTOTTINI PER IL SI’.
Care compagne, cari compagni,
(così ci chiamavamo un tempo e spero che il termine, nella sua elevata accezione etimologica, non vi dispiaccia ora) vi scrivo per diverse ragioni.
La prima è che non ho mai condiviso il clima ingeneratosi, per lo più, nella campagna referendaria, per cui, salvo eccezioni, chi votava sì avrebbe preso quasi a pugni chi votava no, e viceversa. Atteggiamento settario non degno della nostra intelligenza e della nostra età…
La seconda è che, approssimandosi il cinquantennale del Sessantotto, è bene guardarci negli occhi, preparandoci non già a vacui e nostalgici amarcord, ma riflettendo su quali sono, mezzo secolo dopo, i suoi lasciti positivi rispetto alla situazione attuale, senza nascondere gli errori che ci furono.
La terza ragione: credo sia utile continuare a volerci bene, quali che siano le divergenze, cantandocele chiare come si faceva un tempo, senza per questo rompere amicizie.
Ciò premesso, ecco il mio canto… Ho già avuto modo di stigmatizzare il vostro tentato scippo… “ ’68 per il Sì”: quell’apostrofo resta imperdonabile.
Alla base del vostro sì avete posto “l’allineamento istituzionale con le democrazie avanzate”. E vi siete innamorati della “democrazia decidente”… Come se, questa “democrazia”, non decidesse abbastanza e rapidamente (controprova: in meno di mille giorni dal giuramento, il governo Renzi ha fatto approvare una legge ogni 8 giorni, e sono state addirittura 109 le leggi di sua iniziativa varate, ponendo il voto di fiducia ben 57 volte!)
E non avete visto come sono veloci le “democrazie avanzate”, quando si tratta di bombardare qualcuno?
Il risultato della consultazione è stato inequivocabile: la grande maggioranza del nostro popolo – compresa la grande maggioranza di quelli che hanno fatto il Sessantotto – hanno mandato a quel paese Renzi, gli endorsement delle cancellerie, di Confindustria, Marchionne, Coldiretti ecc. ecc. , comprese le vostre fisime istituzionaliste…
Ha detto, quella grande maggioranza: ad essere davvero “avanzata” è la nostra Costituzione antifascista; ciò che manca sul serio è la politica volta realmente al bene comune, anziché agli interessi dei più forti.
Nessuna lettura dell’esito referendario coglie nel segno, se non mette in rilievo il dato saliente del risultato: la voglia dei cittadini di voler contare di nuovo, avendo le tasche piene delle bugie incredibili raccontate a media unificati, e invece vuote per quanto riguarda il lavoro, l’avvenire delle famiglie e dei figli.
Dice niente, per esempio, che al quartiere Parioli di Roma ha vinto il sì, mentre appena fuori il no ha dilagato? E che il no sia straripato in tutto il Nord produttivo e, contemporaneamente, nel Mezzogiorno disagiato?
Senza dimenticare i giovani, che per circa tre quarti hanno votato no (che bel segnale!), condannati come sono alla disoccupazione e costretti a vivere in famiglia fino a 30 anni e più!
In breve, la gente ha detto: la “riforma” della Costituzione è uno specchietto per le allodole, noi non crediamo più alle mancette preelettorali, vogliamo una politica di investimenti finalizzata a creare lavoro, a garantire sul serio il diritto allo studio, una lotta vera alla corruzione e all’evasione fiscale, e istituzioni trasparenti nello spirito di questa – questa! – Costituzione.
Vengo ora al punto che più mi preme sottoporre alla vostra attenzione.
Mi chiedo e vi chiedo: come avete potuto voi, che insieme a me e un’infinità di altri avete vissuto e organizzato la straordinaria stagione della democrazia diretta, avere dimenticato che solo quando le idee camminano sulle gambe di milioni di donne, di uomini, di giovani si possono strappare conquiste decisive, come avvenne nel biennio 1968-69 e, per quanto riguarda i diritti civili, negli anni Settanta?
Dimentichi di quella basilare esperienza – la democrazia diretta, come appunto reale democrazia decidente per i più, è uno dei lasciti più alti del Sessantotto – siete caduti, per così dire, nel “cretinismo istituzionale” (parente stretto di quello “parlamentare”), illudendovi che una costituzione esecutivo-centrica e una legge elettorale truffa (ben più di quella di De Gasperi nel 1953) avrebbero taumaturgicamente risolto i problemi sociali dell’Italia a prescindere dal rimettere la sana politica al primo posto.
Quando interloquivo (nel rispetto dei diversi orientamenti) con molti di voi, mi sembrava di trovarmi di fronte a novelli… Von Clausewitz…, pensosi delle sorti istituzionali del Paese, come se quello fosse il problema vero, e non invece una politica bucaniera che ha fatto sì che in Italia ci sono 17 milioni e mezzo di persone – più di 1 su 4 – in condizioni di povertà e a rischio di esclusione sociale.
Rifletteteci con serietà: scambiare Renzi per un nuovo… Giustiniano… non è stato un grave abbaglio?
Ed è qui che entra in ballo una questione delicata, relativa al rapporto tra ciò che siamo stati allora e ciò che ad alcuni è capitato di diventare oggi: è la questione della coerenza.
Affronto il tema senza nessunissima pretesa di ergermi a… “Corte Costituzionale del Sessantotto”, come mi ha peregrinamente rimproverato uno di voi.
E’ ovviamente legittimo che, sulla distanza, ognuno faccia le sue scelte, senza per questo meritare la patente di traditore, di voltagabbana ecc.
Ma la coerenza è qualcosa di estremamente impegnativo: o c’è o non c’è. E ognuno se la misuri con onestà, guardandosi allo specchio.
La coerenza non è per niente come un quadro, destinato per sempre a rimanere appeso a un chiodo.
Esempio metaforico: se uno in barca, avendo stabilito la rotta e ritenendola immodificabile, incontra uno scoglio e ci va a sbattere, non è un coerente, è un imbecille. Il vero coerente modifica certamente la traiettoria ma, evitato così lo scoglio, riprende la rotta.
Ciò che voglio dire lo spiega compiutamente l’etimologia della parola. “Coerenza” viene dal verbo latino “cohaereo” (“essere unito”, “avere connessione”, “essere strettamente legato”) e indica, per l’appunto, una “fedeltà” a ciò che si è stati, mentre si diviene e si evolve – e, dunque, mentre si cambia – ma non cambiando i principi originari e gli ideali di fondo.
L’aggettivo “coerente” fu usato per la prima volta, non a caso, da Giordano Bruno e, poi, è stato ripreso da Giuseppe Giusti nel senso “che non cade in contraddizione con se stesso”.
Così, per esempio: coerenti furono i partigiani che, conquistata la Liberazione, smisero ovviamente di sparare, ma si impegnarono in prima fila contro la celere di Scelba, per i diritti dei lavoratori e dei giovani, per l’occupazione delle terre dei latifondisti, per difendere la democrazia dai molti conati reazionari – fino alla coerente difesa, con l’ANPI, della Costituzione nel referendum.
E voi? E noi? Tramontate le fanfaluche e i miraggi renziani, non vi sembra necessario proseguire la lotta, nelle condizioni nuove, per dare una mano, soprattutto ai giovani, mettendo a frutto la nostra esperienza, per nuovi diritti e doveri, per costruire una società meno diseguale, un mondo di progresso effettivo e di pace?
Mi rivolgo a voi perché non vi ritengo dei “pentiti” (altrimenti non vi avrei considerato), e infatti rivendicate il legame con le lotte passate.
Bene: siatene – siamone – coerenti!
Con un caro abbraccio
Mario Capanna
P.S Mi accorgo ora, rileggendo, che la data della mia missiva è il 7 dicembre, 48° anniversario della nostra celebre contestazione alla Scala di Milano… Che volete farci: inconsciamente è il passato che si volge al futuro…

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