L’amore fatale di Medea
di Maria Pellegrini
Medea è una figura del mito ricordata soprattutto per l’uccisione dei suoi figli, un crimine orrendo: una madre dispensatrice di morte per le stesse creature che ha generato è contro natura, un gesto così estremo non può assolversi, anche se compiuto per vendicarsi di un amore tradito. Proprio per questo atto criminale, tanto odioso, Medea è diventata il personaggio del mito più noto e coinvolgente, di cui poeti tragici e scrittori di ogni epoca e civiltà hanno lasciato vari ritratti: infanticida, strega, semidea, barbara, donna tradita, donna fatale, femminista ante litteram. Non mancano le analisi degli psicanalisti che la considerano il prototipo della donna combattuta tra il rancore per il tradimento del proprio uomo e l’amore per i figli, rancore sfociato nel desiderio di vendetta fino al punto di punire il padre attraverso l’uccisione delle sue stesse creature. Medea considera Giasone colpevole di non aver osservato la legge della reciprocità amorosa che comporta il dovere di amare chi ama, di non aver rispettato il giuramento di fedeltà. Medea si rivela personaggio di grande modernità in quanto donna che agisce per rispondere a un’ingiustizia subita. Delusa e disonorata esclama:
“Colui che per me era tutto, è risultato il peggiore degli uomini”.
Medea, secondo il mito, appartiene alle stirpe del Sole: è figlia di Eete, re della Colchide (regione dell’Asia Minore sul Mar Nero) che è a sua volta figlio di Helios, il Sole. La madre è identificata con diverse figure mitiche, tuttavia la tradizione dominante la fa coincidere con una certa Idyia, spesso associata al mondo lunare e a Ecate, divinità che presiede alla magia e agli incantesimi.
La vicenda di Medea è legata al viaggio per mare di Giasone e dei suoi compagni, chiamati Argonauti perché la nave sulla quale solcano le onde si chiama Argo. Il viaggio e le sue avventure e disavventure sono narrate nel poema epico “Le argonautiche” di Apollonio Rodio (III sec. a. C.). Giasone è stato usurpato del suo legittimo diritto al trono della città di Iolco, in Tessaglia, dallo zio Pelia. Reclama il suo regno e Pelia promette che sarà disposto a cederglielo soltanto a patto che egli recuperi il magico Vello d’oro in possesso di Eete, re della Colchide. Il Vello è quello dell’ariete alato che trasportò sulla sua groppa i fratelli Elle e Frisso, perseguitati dalla matrigna, fino all’Ellesponto, l’antico nome dato dai greci alla zona attorno all’attuale stretto dei Dardanelli, (dove Elle annegò, da cui Ellesponto = mare di Elle). Frisso si salvò, arrivò nella Colchide e fu ben accolto da Eete. Il giovane sacrificò l’ariete a Zeus e ne offrì il vello al re, il quale lo consacrò ad Ares, lo inchiodò a una quercia in un bosco sacro al dio, mettendovi a guardia un drago insonne.
Pelia spera che l’eroe muoia nell’impresa. Infatti all’arrivo dei greci in questa lontana terra, Eete impone a Giasone il superamento di prove umanamente impossibili come condizione per riconsegnare il Vello d’oro. L’eroe deve superare tre prove: aggiogare da solo due tori, mai domati, che emettono fuoco dalla bocca; arare il campo e seminare i denti di un drago (appartenuti a un drago che Atena aveva dato a Eete); sconfiggere i guerrieri nati da quei denti; uccidere il drago che è a guardia. A questo punto entra in scena la giovane Medea, figlia del re ed esperta di magia, che incontra l’eroe greco Giasone. La vicenda di Medea, soprattutto nella tragedia di Euripide - che resta il testo classico di riferimento - comincia con l’innamoramento fatale della giovane principessa per Giasone avvenuto per volontà di Afrodite la dea dell’amore, “la sovrana dai dardi acutissimi” scrive Pindaro nella “IV Pitica”, nella quale rievoca il mito del Vello d’oro, degli Argonauti e dell’innamoramento di Medea presa da violenta passione e divenuta folle d’amore quando Eros per volere della madre scocca la freccia.
L’innamoramento ha origine divina e l’oggetto d’amore non è una scelta consapevole. Il mito indica, attraverso il racconto dell’intervento divino, la natura irresistibile, potentissima di una passione che genera dipendenza perché nulla si può contro la potenza di Eros. Tutto di fronte a lui si annulla. Come Medea anche Arianna, Fedra, e altre eroine tragiche in nome dell’amore sacrificano qualcosa, tradiscono il padre, lasciano la patria, abbandonano tutto per l’ignoto.
Grazie a Medea e alle sue arti magiche Giasone supera le prove, prende il Vello e fugge sulla nave Argo con la fanciulla alla quale ha giurato amore ed eterna fedeltà. Inseguiti da Eete, i due amanti uccidono Apsirto, il fratello di Medea che hanno portato con loro, e gettano le membra del suo corpo in mare. Eete perde tempo a raccoglierle e non riesce più a raggiungere i fuggitivi che vanno in Tessaglia, dove Medea provoca la morte di Pelia. Per questo sono costretti a fuggire a Corinto, dove trovano asilo presso il re Creonte.
Giasone per desiderio di potere, tradisce Medea, e si accinge a sposare la figlia del re. All’inizio della sua tragedia Euripide ci presenta Medea a Corinto dinanzi alla sua casa dopo l’abbandono di Giasone. La sua nutrice rivolta al pubblico parla del triste stato della sua padrona:
“Non tocca cibo, piange, giacché si è accorta di aver subito un’ingiustizia dal marito, è sorda a ogni consiglio, rimpiange il suo caro padre, la terra, la casa, che ha tradito per giungere in questa terra con un uomo che l’ha disonorata. Dalla sventura ha compreso che cosa significhi abbandonare la casa paterna. Odia i figli, né si rallegra a vederli. Temo che qualcosa di sinistro stia meditando”.
Medea esce dalla casa e lamenta la triste condizione delle donne e la loro infelicità:
“Tra tutte le creature dotate di anima, è proprio la donna a essere la più infelice. Per prima cosa noi dobbiamo con gran dispendio di beni, comprarci uno sposo (il riferimento è alla dote) e prenderci un padrone del nostro corpo; questo è un male ancora più doloroso. E in questo c’è un rischio gravissimo: il marito può essere cattivo oppure buono. Per noi donne la separazione è un disonore, né si può ripudiare lo sposo… E gli uomini dicono di noi che viviamo in casa una vita senza pericolo, mentre loro combattono in guerra, ma ragionano male perché io vorrei piuttosto trovarmi tre volte in prima linea che partorire una volta sola!”
Poi compiange se stessa esule dalla patria e lontana dalla sua gente, sente di essere “straniera” nella città che la ospita. Il suo è un lacerante conflitto tra un amore incerto e le certezze della propria famiglia d’origine.
La situazione precipita ulteriormente: Creonte in persona viene a portarle l’ordine di lasciare immediatamente Corinto con i figli. Ottiene da lui la dilazione di un giorno adducendo il pretesto di dover preparare la partenza. In realtà vuole preparare il suo piano di vendetta. Incontra Giasone che la rimprovera di non essersi rassegnata alla nuova situazione, e a lei che gli ricorda il suo aiuto per impossessarsi del Vello, risponde che fu in realtà voluto da Afrodite che ha suscitato il loro amore. In un nuovo incontro, ricevuta la promessa di un futuro asilo ad Atene, Medea si finge comprensiva, concede che i figli restino con lui a Corinto e come gesto di riconciliazione, affida ai piccoli un ricco peplo e una corona d’oro perché la portino alla sposa. I doni nascondono un’insidia mortale, appena indossati dalla ragazza, sprigionano fiamme indomabili che la bruciano insieme al padre accorso in aiuto. Quanto ai figli la loro sorte è segnata: Medea ha deciso di ucciderli per vendicarsi di Giasone. Sente l’affetto materno, ma prevale il desiderio di vendetta. Quando Giasone arriva sconvolto alla casa di Medea, scopre che anche i suoi figli sono stati uccisi. Medea sala su un carro alato fornitole dal dio Helios: ha con sé i cadaveri dei figli e schernisce l’eroe, cui non resta che lamentare la sua sorte. Sulla sua vita futura e sulla sua morte ci sono varie versioni che non è il caso qui di citare.
Da Euripide in poi, nell’immaginario collettivo, anche attraverso tutte le opere che a lui si rifanno, Medea è considerata un’infanticida. Così non era stato nelle fonti antecedenti l’opera di Euripide; alcuni suoi contemporanei e i primi commentatori ed eruditi del II e III secolo d. C., preferendo le tradizioni pre-euripidee del mito, hanno considerato il drammaturgo un misogino. Medea è una figura inquietante sulla scena, ma portatrice di valori positivi che secondo la mentalità greca dovrebbero appartenere a un uomo, cioè intelligenza, capacità di azione ed eloquenza, per questo non è ben accetta. Ai tempi in cui Euripide scrive, maschilismo e xenofobia sono tenacemente radicati nella mentalità degli Ateniesi, perciò il poeta rappresenta Medea in una posizione subordinata all’uomo e sottolinea che è la straniera, una barbara che viene dall’Oriente, dall’estremità del mondo, e non conosce le leggi su cui si fonda la civiltà. È sospettato anche di aver fatto ricadere l’infanticidio su di lei per assolvere gli abitanti di Corinto e per non dispiacere ai committenti della tragedia che temono il potere femminile rappresentato da Medea.
Nell’ Atene del V secolo l’afflusso degli stranieri è grande, i matrimoni misti sono frequenti, anche perché molti cittadini ateniesi viaggiano in Asia Minore per commerci, sposano donne straniere e le portano in patria. La paura che i figli nati da matrimoni misti possano alterare l’educazione tradizionale spinge Pericle nel 451-450 ad approvare una legge in seguito alla quale diventano cittadini legittimi solo figli di due genitori sposati ed entrambi ateniesi. La legge esclude il diritto di cittadinanza e la partecipazione alla vita politica dei figli nati da un genitore straniero. Ne seguono molti divorzi soprattutto da parte di padri che vogliono sposare una donna ateniese da cui avere dei figli sicuramente legittimi.
Tuttavia c’è anche chi ha voluto ritenere che Euripide abbia rivisto nella vicenda mitica di amore e abbandono di Medea quella di tante donne straniere che, lasciata la casa paterna e giunte dopo un lungo viaggio in mare ad Atene per seguire lo sposo greco, sono poi ripudiate per le disposizioni di Pericle sulla cittadinanza ateniese.
Medea è donna e straniera e Atene guarda con sospetto tali categorie. Tuttavia a Euripide Medea sembra piuttosto vittima della società greca maschilista e xenofoba che la demonizza. Infatti nella sua tragedia appare una duplice Medea: assassina e madre tenerissima che pronuncia parole dolcissime ai figli, quasi il drammaturgo volesse risarcirla dell’accusa tremenda che le ha mosso. Ma nel momento in cui condanna la donna la coglie nelle sue vibrazioni psicologiche, nei mutamenti d’animo e nel progressivo distaccarsi dalla sua famiglia, dalla sua stirpe e dalla sua terra, e crea un personaggio di grande intensità poetica e di alta drammaticità.
Chi ha completamente rovesciato il mito è la tedesca Christa Wolf che nel suo romanzo, “Medea. Voci” si domanda:
“È possibile che una guaritrice, in un’epoca in cui i figli erano considerati il bene supremo di una tribù, possa essa stessa averli uccisi” ? Euripide è stato il primo ad attribuirle l’infanticidio, mentre fonti antecedenti descrivono i tentativi di salvarli, portando i bambini nel tempio di Era, dove sono i Corinzi a ucciderli”.
Il suo romanzo è tutto contro corrente rispetto alla maggior parte delle altre riscrittura del mito. Medea le è apparsa come una donna fra due sistemi di valori: la natia Colchide e Corinto, la città in cui si rifugia.
Esistono in epoca antica numerose versioni della storia di Medea, quella di Esiodo, Euripide, Apollonio Rodio, Seneca, Ovidio, Draconzio. Anche in epoca moderna ha affascinato da sempre scrittori e artisti, tanto che la lista dei rifacimenti e delle riscritture del mito sarebbe lunghissima, ma citiamo oltre al romanzo della Wolf il film “Medea” di Pier Paolo Pasolini, impersonata in modo egregio dalla Callas.
Nota: l’immagine è un ritratto di Maria Callas, interprete del film “Medea” di Pasolini, realizzata da: www.quadri-moderni-arte21.it

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