di Maria Pellegrini.

Le prime lettere d’amore dell’antichità greco-latina si devono a Ovidio, vissuto al tempo dell’imperatore Augusto. Facendosi interprete dell’animo femminile il poeta - che aveva definito il suo cuore “non insensibile ai darsi di Cupido” e se stesso “il cantore di teneri amori”- immagina che alcune tra le donne più famose del mito (quindici in tutto) come Penelope, Elena, Medea, Arianna, Didone, Fedra, ma anche altre meno note, cantate nei poemi epici e nelle tragedie, scrivano agli uomini amati esprimendo la forza del loro sentimento spesso mal corrisposto. Seguono altre sei lettere: tre di un personaggio maschile che scrive alla donna amata e tre delle donne che a sua volta gli rispondono. L’insieme di queste lettere in versi elegiaci, raccolte in un volume dal titolo “Le Eroidi” (Heroides), costituisce un’innovazione nel panorama della letteratura antica. Nell’“Arte di amare”, opera in cui maliziosamente sono illustrate le tecniche per conquistare e conservare l’amore, Ovidio, consapevole di avere creato un genere nuovo, l’epistola poetica elegiaca, si dice orgoglioso della propria originalità. Dai temi dell’elegia riprende tutti i sentimenti tipici di una situazione amorosa che abbia procurato sofferenza: dolore per il distacco, lamento per l’abbandono, suppliche all’amato per un veloce ritorno, e anche disperazione e minacce. Toni drammatici affiorano quando le donne si sentono abbandonate per sempre, come Didone, Medea, Arianna. Nuova è anche l’idea di un’opera che rappresenti voci femminili, che diventano protagoniste sulla scena poetica mentre nel mondo elegiaco dei latini la donna, pur presente, non ha mai la parola. Le lettere, anche se scritte da un uomo, riportano in prima persona le ragioni del cuore, i pensieri e i sentimenti che in ogni tempo sono attribuiti all’“altra metà del cielo”. Il pretesto epistolare è utile al poeta per indagare la psiche delle eroine la cui passione spesso tende al morboso o al patetico rendendo melodrammatica la narrazione.

La raccolta si apre con l’epistola di Penelope a Ulisse. La fedele sposa gli scrive dolendosi perché ancora non sia tornato in patria. Mentre altri condottieri greci sono nelle loro case, il suo amato è lontano in terre sconosciute e la preoccupa l’idea che forse possa essere trattenuto da un altro amore, mentre lei circondata da numerosi pretendenti che affollano la reggia rifiuta nuove nozze, ma lo avverte che non potrà resistere a lungo perché è sola, confortata unicamente dal vecchio Laerte e dal giovane Telemaco. Anche per loro è necessario il suo ritorno. Ecco l’incipit:

“Questa lettera te la invia la tua Penelope, o Ulisse che indugi a tornare. Ma non rispondermi, vieni di persona! Troia, odiata dalle donne greche, di certo è abbattuta; Priamo e tutta Troia a malapena valevano tanto! Oh se allora, quando con la nave si dirigeva verso Sparta, l’adultero Paride fosse stato sommerso dal furore delle acque! Io non sarei rimasta nel gelo di un letto vuoto e, abbandonata, non mi sarei lamentata dell’interminabile trascorrere dei giorni, né, mentre cercavo di ingannare il grande spazio della notte, la tela ricadente avrebbe stancato le mie mani, prive di te …. Siamo soltanto tre indifesi: una donna senza forze, un vecchio, Laerte, un ragazzo, Telemaco … vieni tu, al più presto, sei porto e rifugio per i tuoi! Pensa a Laerte: egli prolunga l’ultimo giorno destinato alla sua vita, perché tu possa finalmente chiudere i suoi occhi. Io, che alla tua partenza ero una giovane donna, per quanto presto tu possa tornare, di certo ti sembrerò diventata una vecchia”.

L’amore della fedele Penelope per il marito lontano, narrato alle origini della letteratura occidentale nell’Odissea omerica, costituisce l’archetipo dell’amore fedele. Nel passaggio dal mondo epico a quello elegiaco, Ovidio fa parlare Penelope attribuendole sentimenti di gelosia, che non sono presenti in Omero, ma rimane il patto di fedeltà giurato al momento delle nozze, nonostante l’insistenza di numerosi pretendenti.

Voltiamo pagina e troviamo un’altra famosa donna del mito: Arianna, figlia del re di Creta Minosse, colei che ha aiutato Teseo - donandole il filo - a uscire dal Labirinto. Dopo avere ucciso il Minotauro, Teseo porta con sé la principessa cui deve la vita, ma presto l’abbandona su una spiaggia solitaria. Disperata per la crudeltà dell’amato, la giovane gli scrive rievocando con drammaticità il momento in cui svegliandosi non lo trova più accanto a lei. La passione di Arianna è violenta e nella lettera, rinnovando il suo dolore, traspare odio, esecrazione, e straziante ricordo delle gioiose speranze distrutte, ma poi ancora amore e illusione di ritrovare il suo amore:

“Le parole che leggi t’invio, o Teseo, da quel lido donde le vele portano lontano senza me la tua nave; purtroppo a tradirmi è stato il mio sonno e tu, scellerato, ne hai approfittato per partire lasciandomi sola. Era l’ora in cui la terra è spruzzata da cristallina brina e nascosti tra le fronde si lamentano gli uccelli; non ancora ben desta nel languore lasciato dal sonno, allungo le mani credendo di stringerti: non ci sei…atterrita mi alzo, mi batto il petto, mi strappo la chioma già scomposta dal sonno. Guardo la riva del mare deserta, c’è ancora la luna, guardo se sul lido si vede qualcosa, niente altro scorgono i miei occhi che il lido deserto. Corro qua e là senza meta ma l’alta sabbia rallenta i miei passi. Per tutto il lido risuona la mia voce che grida “Teseo!”…“Teseo scellerato, ritorna, volgi indietro la nave. Non è completo il tuo equipaggio!”

Arianna ha paura è sola su una spiaggia deserta, teme l’arrivo di fiere o uomini, maledice se stessa per aver aiutato Teseo ed essersi fidato delle sue promesse, lo vede come uomo dal cuore di pietra, ma continua a sperare che una volta tornato in patria ed essersi vantato delle sue prodezze, pensi a lei e ritorni. Così lo implora a chiusura della sua lettera, pur sapendo che non arriverà a destinazione, né riceverà risposta:

“Oltre le vaste acque io sventurata protendo a te le mani stanche di battere dolorosamente il petto. Afflitta, ti mostro questi capelli rimasti; per queste lacrime che cadono per i tuoi misfatti, Teseo, ti supplico, inverti la rotta e messa al contrario la vela, ritorna; se poi intanto sarò morta, raccoglierai le mie ossa”.

Ovidio rievoca il silenzio di quella notte lunare che circonda la fanciulla, la deserta e squallida località che la accoglie; il cielo, il mare e la terra sembrano prendere parte al suo dolore e alla sua solitudine. Il paesaggio che fa da sfondo al lamento di questa eroina è desolato, una scenografia in accordo ai sentimenti espressi dalla protagonista e al potenziale patetico della vicenda. Ovidio è molto abile nel descrivere la disperazione di Arianna tanto che è facile riconoscervi il nostro stesso sentire nei momenti di abbandono.

La lettera di Fedra, sposa del re Teseo, al figliastro Ippolito è diversa, la protagonista non è stata abbandonata, ma si mostra come una scaltra seduttrice che per scolparsi del suo amore incestuoso per Ippolito dà la responsabilità a Venere e come scusante porta gli adulteri del marito. Rievoca il luogo del suo innamoramento avvenuto durante una festa a Eleusi. Attratta dalla virile bellezza del giovane è presa da folle passione e gli scrive per dichiarare il suo amore e lo rassicura perché non si lasci intimorire e turbare dall’incubo dell’incesto:

“Quest’amore m’invade fino in fondo alle ossa. La tua veste candida, i capelli infiorati, un timido rossore colora il tuo viso ... Non spaventino l’animo tuo vane ombre: se una matrigna intende unirsi con il figliastro, questo è un vecchio scrupolo, destinato a morire, esisteva nel regno di Saturno. Poi fu Giove stesso a rendere legittimo il piacere e ogni cosa ora è permessa da quando ha sposato sua sorella … non indugiare, affretta la nostra unione. L’amore che mi strazia sia per te benigno, io, umile e supplichevole, non disdegno di pregarti”.

Poi affiora un leggero senso di colpa, dichiara di aver perso il suo orgoglio, ma l’amore è troppo forte e sospira:

“Chi ama non vede più ciò che è decoroso. Ho perduto il pudore, che è fuggito e si è arreso; perdonami se parlo e doma il tuo duro cuore … Alle preghiere aggiungo lacrime. Leggi tutte le parole e poi immagina di vedere le mie lacrime”.

In Ovidio Fedra costituisce un caso anomalo nel panorama delle Eroidi, trattandosi di una lettera di seduzione per far innamorare di sé il suo figliastro che implora con insistenza per essere corrisposta nella sua passione.

Pe alcuni studiosi di Ovidio le vicende amorose delle eroine non sarebbero che lo specchio di tanti casi umani presenti nella società del primo impero, storie di amori che egli avrebbe osservato, meditato ed trasferito nelle vicende mitologiche. Del resto l’amore tragico è uno dei più fecondi e quanto mai attuali temi di molta letteratura e poesia.

Sono lettere al femminile scritte da un uomo, un poeta che mostra consapevolezza della situazione psicologica e sociale della donna. Le Eroidi lo indicano esplicitamente quando Ero, un’altra figura del mito innamorata di Leandro scrive: “Voi uomini cacciando o coltivando il suolo fecondo, occupate gran tempo con varie attività: o vi trattiene il Foro oppure i premi dell’odorosa palestra, o anche curvate col morso il collo al destriero in maneggio, talora prendete gli uccelli col laccio, talora i pesci con l’amo; poi messo il vino in tavola, si prolunga per voi l’ora più tarda. Da tutto questo io sono esclusa, a me da fare non resta nulla solo l’amare”.

Compare qui uno dei motivi centrali delle Eroidi la raffigurazione di un universo femminile chiuso, privo di relazioni con il mondo e quindi più incline ad accogliere la passione d’amore e a farne l’unica ragione di vita.

Abbiamo qui citato sono brevi stralci di alcune lettere, ma per chi volesse leggerle tutte troverà in libreria o in biblioteca molte traduzioni in versi o in prosa, a cura di importanti studiosi di letteratura latina.

Nota: l’immagine è di A.Bonaventura www.ritrattista.net

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