Grande è la confusione sotto il cielo, La situazione è eccellente.
Di Rosa Fioravante, da nuovaatlantide.org .
Chi scrive crede che l’esigenza di creare un soggetto politico capace di ripensare l’assetto del capitalismo finanziario e di proporre un piano di contrasto alle diseguaglianze crescenti, che lotti per l’arresto del cambiamento climatico e la fine della discriminazione sessuale, razziale, religiosa in tutte le sue forme, non nasca con il passaggio del referendum costituzionale né con esso si esaurisca.
Lo spazio politico lasciato scoperto dalle attuali forze in campo in Italia è infatti quello innanzitutto dell’organizzazione di una dialettica sociale che porti gli sfruttati a contrapporsi agli sfruttatori, alterando i rapporti di forza, schiacciati oggi tutti a vantaggio dei secondi. La vittoria del NO al referendum costituzionale è necessaria per respingere una legge peggiorativa dell’assetto istituzionale del Paese, per dare un segnale di opposizione al disegno del governo di regressione sul fronte della partecipazione democratica e di umiliazione delle parti più deboli della società, e per scuotere il panorama politico nazionale. Quello che l’esito del referendum non fa invece, sia esso positivo o negativo, è modificare i processi sociali profondi e decennali che hanno portato al divorzio fra rappresentanza politica “di sinistra” e suo radicamento nei luoghi del conflitto e di costruzione di consenso fra i ceti medio-bassi. Se esiste una sola possibilità di ricomposizione di questo divorzio sta oggi nella produzione di una proposta politica talmente netta e radicale da essere a tutti immediatamente comprensibile e nella costruzione di una classe dirigente credibile e coerente che la interpreti e le dia corpo.
La vittoria del NO al referendum non rende più chiaro il profilo politico di Sinistra Italiana, né aggira i problemi di democrazia interni che si sono determinati durante questo anno di percorso costituente. L’attendismo delle dirigenze che vivono in funzione dell’esito referendario, assomiglia troppo all’antica abitudine delle formazioni minoritarie di aspettare il papa straniero, il salvatore della patria, e comunque di vivere in funzione di ciò che accade negli altri schieramenti più che di ciò che viene costruito e prodotto fra i propri iscritti. Questo determina l’ovvia frustrazione degli attivisti e il loro conseguente abbandono, insieme all’allontanamento di qualunque speranza di allargamento e costruzione di apprezzabile consenso, impossibile da aggregare intorno ad una proposta politica confusa e sempre definita ex-negativo.
Se il percorso costituente di Sinistra Italiana si esaurisce nella campagna del NO, pur nell’evidente sua priorità, allora non vi è motivo alcuno per prendervi parte: i molteplici comitati referendari di opposizione sono già attivi ed esaustivi di tale funzione. Altra cosa è se la campagna per il NO diviene strumento per veicolare al di fuori delle cerchie di coloro che già sono iscritti a Sinistra Italiana l’idea di mondo e società che questo nuovo partito propone. Tuttavia, per ottenere questo secondo ed auspicabile esito, sarebbe necessario sapere quale sia effettivamente tale visione.
La manifestazione del 1 Ottobre a Firenze è stata importante per questo: ha dato plastica raffigurazione ad una comunità che ha ancora voglia di lottare fuori dalla schiavitù reale e metaforica al pensiero unico, ma può essere solo l’inizio. Un inizio necessario e importante: dalle regole del gioco democratico, dell’assetto istituzionale complessivo e dai valori fondanti del patto sociale del Paese si dipanano tutte le possibilità di interpretazione della propria attività politico-partitica. È quindi necessario raccontare estesamente le ragioni del NO, le ragioni di un sistema elettorale proporzionale, le ragioni dell’acquisizione di un sistema multipolare, le ragioni della divisione dei poteri e dell’equilibrio di pesi e contrappesi. Non per un momento si perda però di vista l’ottica di medio periodo nel quale deve necessariamente muoversi la nostra azione, se vogliamo essere autenticamente rinnovatori e non solo pedine di facili operazioni di facciata puntualmente e giustamente punite dagli elettori.
Non è la crisi, è il sistema!
Dallo scoppio della grande crisi economica del 2008 ad oggi lo scenario politico mondiale è completamente mutato, e lo ha fatto in modo del tutto peculiare per la sinistra.
L’aumento vertiginoso delle diseguaglianze ha eroso la classe media che in Occidente ha rappresentato la colonna portante delle liberaldemocrazie. La deindustrializzazione, il superamento del fordismo, la finanziarizzazione dell’economia, la precarizzazione del mercato del lavoro e il progressivo smantellamento del welfare state (per citare solo alcuni dei processi) hanno portato ad un significativo squilibrio del rapporto Capitale-Lavoro, in favore del primo termine. Oggi lo squilibrio è tale che la tenuta democratica occidentale è messa in crisi proprio dall’impossibilità del lavoro di organizzarsi per contrastare lo strapotere del capitale ottenendo una riforma strutturale del sistema socio-economico paragonabile a quella dei “trenta gloriosi” vissuti col compromesso socialdemocratico dal secondo dopoguerra agli anni ’70. La controrivoluzione liberista propagatasi sulle due sponde dell’Atlantico dagli anni ’80 ad oggi ha prodotto un’irrimediabile screditamento e compromissione della classe politica della tradizionale “socialdemocrazia” che ha, con poche sporadiche e isolate eccezioni, facilitato tale controrivoluzione, sposandone gli assunti di fondo. La terza via blairiana, il clintonismo, il veltronismo (per citarne alcune) e ogni altra forma di subalternità culturale alla destra neoliberista sono state pagate al prezzo della marginalità politica in termini di perdita di consenso, e di disgregazione e sperpero del patrimonio umano di lavoratori, studenti, anziani, ceti sociali in difficoltà, che tali formazioni avevano raccolto dalla loro fondazione.
La sinistra politica è così divenuta incapace di carpire i segnali che venivano dalla società, mentre rinunciava all’elaborazione di un pensiero proprio sul mondo. Oggi, dire mondo e dire capitalismo vuole essenzialmente dire “globalizzazione”. Dal ripensamento delle regole con le quali la globalizzazione si è sviluppata e dalla volontà politica di costruire un sistema globalizzato alternativo a quello fino ad oggi implementato, possono tornare ad incidere i valori, le idee e le prassi della sinistra.
L’asse politico di scontro che si è andato determinando in tutto occidente è quello che corre fra “sistemici” e “antisistemici”, laddove oggi essere “sistemici” vuol dire perpetuare – con vari gradi di convincimento e consapevolezza – un sistema politico-economico iniquo che sta crollando su se stesso. Il campo dell’antisistema è oggi però egemonizzato dalle formazioni di estrema destra: xenofobe, violente, reazionarie e autoritarie, la cui proposta politica è tesa a dirigere lo scontro sociale sull’asse religioso-culturale invece che su quello dell’assetto economico.
Stare a sinistra nel fronte dell’anti-sistema vuole dire oggi anche superare la politica dell’identità: smettere di difendere le minoranze etniche in quanto tali, la comunità LGBT in quanto tale, le donne in quanto tali e così via per tutte le altre categorie sociali svantaggiate, ma ripensare il funzionamento complessivo del sistema politico-economico in modo che tutti ne traggano vantaggio, a prescindere dall’essere componenti di un dato gruppo etnico, religioso ecc..
Riconciliare Riformismo e Radicalità
Il malessere derivante da politiche economiche che aumentano le diseguaglianze di reddito e ricchezza e dal diffondersi della cultura dell’atomismo e dell’esasperata competizione di tutti contro tutti, si declina politicamente nell’allontanamento dal voto o nel consenso a partiti di estrema destra.
Un partito oggi serve innanzitutto per raccogliere quel malessere, organizzarlo intorno ad un programma di sovversione dell’incancrenito sistema neoliberista e di costruzione di un orizzonte nuovo. Per farlo è necessario far incontrare valori antichiquali la giustizia sociale, la solidarietà, la fratellanza, l’orgoglio della libertà, con forme organizzative nuove.
Le manifestazioni e le proteste che si sono andate moltiplicando in tutto Occidente dallo scoppio della crisi ad oggi avevano in comune un diffuso ribellismo verso l’élite dei “vincenti della globalizzazione” ma una strutturale mancanza di prospettiva politica come punto di caduta della rivolta. Per trasformare la sollevazione in rivoluzione di sistema è necessario quindi organizzare un soggetto politico capace di far convergere le lotte. Lo si può fare solo tenendo insieme la lotta per i diritti civili e quelli sociali nell’ottica del complessivo sviluppo della società, ma anche tenere insieme realtà che senza un coordinamento politico non si incontrerebbero.
Ciò che accomuna tutte le esperienze che a sinistra si sono intestate la battaglia anti-sistema è proprio la costruzione di unapiattaforma su tre pilastri: una proposta intellettualmente fondata di revisione dell’assetto economico, le lotte sindacali e di ciò che rimane del mondo del lavoro organizzato, i movimenti “di scopo” e di protesta a forte carattere generazionale.
Nell’epoca della disintermediazione e della crisi dei corpi intermedi l’unico modo per riegemonizzare un campo di consenso vasto è ripartire da obiettivi ambiziosi: uscire dalla dimensione economicista della crescita determinata da variabili quantitative e non qualitative, proporre una modificazione delle abitudini di consumo che premino le realtà produttive positive per la società rispettose della dignità dei lavoratori e della salubrità ambientale. Impostare la questione energetica come questione di struttura e non di sovrastruttura. Rideclinare il rapporto cittadino-consumatore-lavoratore, tenendo conto della robotizzazione e dello sviluppo tecnologico, della dimensione sovranazionale del tema del rapporto rappresentanza democratica-regolamentazione fiscale e di standard qualitativi, del mutato rapporto fra tempi di lavoro e tempi di vita. Scarti concettuali preziosi per toccare i bisogni e le problematiche della quotidianità degli individui senza dover aspettare di ricreare condizioni di organizzazione formale ormai forse irripetibili per quanto sempre auspicabili.
Praticare il Partito Antisistema
– Si chiarisca il rapporto del soggetto politico con il potere: il Governo per i fini di giustizia sociale ed emancipazione individuale sia il fine, e il partito il mezzo per raggiungerlo. Solo così è possibile uscire dalla dimensione degli accordi pattizi e dai politicismi dei regolamenti di conti interni che allontanano le persone comuni, rendendo l’attività politica appassionante solo per pochi “addetti ai lavori”. Oltre la concezione del “vincere” e dello “stare in maggioranza” solo per il gusto di starci, si metta l’accento sempre sul “cosa fare” una volta entrati nelle istituzioni. Oltre la concezione del partito come mezzo e come fine che porta a organizzazioni ipertrofiche rispetto alle reali esigenze, si organizzi un partito funzionale ai suoi scopi.
– Oltre la stagione dell’anti-politica: si sia risalto alle buone pratiche territoriali, all’attività istituzionale, a quella sociale degli iscritti e dei gruppi simpatizzanti. Solo così si potrà veicolare l’idea che la politica quando è utile e ha una funzione sociale di rappresentanza di interessi non costituisce uno spreco di risorse, bensì una dimensione di enorme importanza per il benessere individuale e comune, oltre che uno spazio di impegno rispettabile e nel quale è bene investire energie e risorse.
– “Ognuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”: è necessario prevedere meccanismi di perequazione interna, così che chi più può contribuire alla sostenibilità delle risorse interne aiuti coloro che non possono partecipare all’attività politica se non usufruendo di risorse comuni. In quest’ottica è necessario riaprire la battaglia per il finanziamento pubblico ai partiti, architrave della democrazia, mentre si prevedono forme di contributo di scopo da parte degli eletti per fondi destinati a opere di mutualismo, apertura sedi ecc.
– Coloro che lavorano per il partito siano sottoposti a ferreo controllo del proprio operato. Nel rispetto dell’etica minima di sano utilizzo delle risorse, ma anche nel rispetto della fiducia degli iscritti e di coloro che contribuiscono al sostentamento del partito.
– Si rispetti la divisione dei ruoli: gli eletti facciano gli eletti, i burocrati facciano i burocrati e le cariche politiche interne siano decise sulla base di discussioni di piattaforma politica realmente partecipate da tutti gli iscritti. Contro la deriva del partito degli eletti si torni al partito come intellettuale collettivo di riflessione e produzione.
– Si preveda la riapertura di centri studi e di ricerca: nessuna piattaforma politica realmente alternativa può nascere senza un’approfondita conoscenza della realtà produttiva e sociale del paese e senza indagine prospettica sulle politiche per rispondere alle criticità riscontrate.
– Il partito come rete e non come chiesa: stante la chiarezza delle regole di democrazia interna e di elezione degli organismi dirigenti con un significativo mandato politico di decisione e stante l’obiettivo dell’organizzazione territoriale e capillare, si immagini il partito come luogo di intersezione fra esperienze di eterogenea provenienza e caratterizzazione, che possano lì essere sintetizzate e messe a sistema.
Se il progetto di Sinistra Italiana naufraga ad aver perso non saranno (solo) alcuni esponenti politici che in esso avevano investito quel briciolo di credibilità loro rimasta, né (solo) i tanti che hanno speso tempo soldi ed energie per cercare di far avanzare il processo costituente un centimetro più avanti dei litigi da retrobottega dal sapore antico. Avrà perso l’idea che l’alternativa sia possibile e praticabile, che esista un modo diverso di fare politica rispetto all’imperante bullismo di coloro che sono forti coi deboli e deboli coi forti, avranno perso tutti coloro che credono che ci sia vita fuori dal conformismo, dal cinismo fine a se stesso e dall’arrendevolezza. In ultima istanza avranno perso proprio gli sfruttati, gli emarginati, coloro che si impoveriscono e che perdono diritti che un tempo sembravano garantiti: non saranno coloro che vogliono rappresentare il volto buono del neoliberismo a difenderli né gli xenofobi che fomentano la guerra fra poveri. Possiamo ancora far sì che fare Sinistra Italiana voglia dire fare qualcosa per un mondo più giusto, non solo moralmente ma anche nel quale ci sia più benessere per il più gran numero di persone possibile, così che ciascuno potendo vivere una vita dignitosa possa decidere come realizzare i propri talenti e le proprie aspirazioni. Bisogna volerlo, e chi scrive ancora lo vuole.

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