È differente stare al di qua o al di là di un muro.
di Maria Pellegrini.
“Così, d’ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura”.
Lo storico Tito Livio riporta queste parole minacciose pronunciate da Romolo, il mitico fondatore di Roma, dopo aver ucciso il fratello Remo che aveva solcato il tracciato delle future mura della città, disobbedendo al suo ordine.
“In questo modo Romolo si impossessò da solo del potere e la città appena fondata prese da lui il nome di Roma”, rammenta Livio.
Fin da tempi antichissimi, da quando sono nate le prime città, l’uomo si è servito delle mura come difesa. I sovrani del passato indentificavano la propria indistruttibilità con quella delle mura della propria città. Si pensi alle mura di Troia, di Babilonia, di Gerusalemme. Per questo le fortificarono e affidarono ad esse la loro salvezza.
Secondo la tradizione, la fondazione di Roma sarebbe avvenuta intorno alla metà dell'VIII secolo a.C. sul Palatino (dagli storici antichi è stata fissata la data 753 a.C.) Sul colle sono stati rinvenuti i resti di un muro di fortificazione dell’VIII secolo a. C., probabilmente parte della primitiva cinta muraria descritta dallo storico Tacito negli “Annales”, di forma quadrangolare, ma la prima grande cinta muraria viene attribuita, come riferisce Livio, al sesto re romano (secondo dei tre etruschi), Servio Tullio, alla metà del VI secolo a.C., perciò furono dette “mura serviane” lunghe almeno 7 km, in blocchi squadrati di tufo che furono poi utilizzati come appoggio per la fortificazione di un paio di secoli più tardi. Ma queste mura non fermarono l’orda dei barbari che saccheggiarono Roma nel IV secolo a.C.
Verso il 390 a. C. una tribù gallica, i Galli Senoni, forte di alcune decine di migliaia di uomini al comando di Brenno, giunse nell’Etruria centrale e cinse d’assedio la città di Chiusi, senza riuscire a conquistarla. Quindi mosse rapidamente su Roma dove fu ordinata la leva in massa e si misero in armi circa quaranta mila uomini per fermare il nemico che armato di enormi scudi e di lunghe spade gettava grida selvagge e incuteva terrore anche per quegli elmi muniti di corna che copriva il loro capo. Con una sola battaglia i Romani subirono una disastrosa sconfitta, il 18 luglio del 390 a. C. sulle rive del fiume Allia, piccolo affluente del Tevere non lontano dalla città di Fidene. La data 390 a. C. è fissata dallo storico romano Livio, i greci Polibio e Diodoro attestano l’anno 387; sul giorno, il 18 luglio, non ci sono dubbi perché fu chiamato “dies alliensis” considerato giorno di lutto nazionale e scritto nel calendario come “nefasto”. I Romani furono vergognosamente sconfitti. Secondo lo storico Livio, d’età imperiale: “nulla vi fu che ricordasse il valore romano né nei comandanti, né nei soldati. Tanto fu il loro terrore che l’unico pensiero era rivolto alla fuga […] non avevano per nulla tentato di contrastare quel nemico ignoto, molti caddero colpiti alle spalle perché in fuga.” Alcuni valorosi, guidati da giovani membri del senato si rinchiusero nel Campidoglio, fortezza e santuario della città, dopo aver inviato donne e bambini nelle città vicine, soprattutto a Caere, dove si rifugiarono anche le Vestali con gli arredi sacri della città.
I Galli trovando Roma deserta la saccheggiarono e incendiarono; gli abitanti rimasti furono massacrati. L’assedio del Campidoglio durò sette mesi. Gli assediati soffrivano la fame, ma anche la situazione dei Galli non era delle migliori. La mancanza di rifornimenti e la calura estiva favorì lo sviluppo di malattie, perciò quando i Romani proposero trattative di pace, essi accettarono. Fu concordato che i Galli avrebbero lasciato il territorio romano dietro il pagamento di mille libbre d’oro. E così avvenne. I Galli abbandonarono la città per tornare alle loro terre, ma durante la marcia furono attaccati dall’esercito romano che si era riorganizzato fuori città mentre c’era l’assedio al Campidoglio, e furono battuti duranti gli scontri diretti dall’eroe della guerra di Veio, Furio Camillo. Intorno all’assedio del Campidoglio sorsero varie leggende di eroismo per riabilitare lo scacco subito che mise per la prima volta i Romani di fronte a quel vasto mondo di popoli sconosciuti.
In seguito al saccheggio i Romani provvidero a ricostruire le mura. Quelle in tufo di cui vediamo oggi i resti, note come “mura serviane”, sono in realtà il frutto della ricostruzione e del rinforzo del periodo repubblicano lungo lo stesso tracciato, dopo il sacco di Roma, molto probabilmente utilizzando anche le fortificazioni precedenti. Passato lo spavento dovuto al saccheggio da parte dei Galli, la costruzione della cinta muraria, che durò oltre 25 anni, costituì il principale baluardo difensivo per i sette secoli successivi, e si estese per circa 11 km includendo circa 426 ettari .La cinta muraria romana era all’epoca una della delle più grandi in Italia e forse dell’intero Mediterraneo.
Costruito a partire dall’anno 122 d.C. a nord della Britannia, oggi Inghilterra, il vallo di Adriano divideva in due l’isola inglese, attraversandola da costa a costa, per segnare i confini fra i territori romani della Britannia romana e quelli dei barbari della Caledonia (odierna Scozia). La costruzione richiese più di un milione di metri cubi di pietra. Nulla di simile esisteva lungo altri confini.
Fu l’imperatore romano Publio Elio Adriano a ordinare la costruzione del muro di confine, lungo 112 chilometri. Il Vallo era interrotto ogni 1500 metri da una porta e oltre ogni porta si trovava un forte o un fortino, per un totale di 17 forti principali e 80 fortini; fra due fortini si ergevano due torri di vigilanza. I forti e i fortini erano strutture destinate al sostentamento della guarnigione e vi si trovavano gli alloggiamenti della truppa, un ospedale, uno spazio per le esercitazioni e un granaio per la conservazione del cibo.
Lo scopo del muro non era soltanto quello di prevenire invasioni, ma di creare un reale confine. Adriano preferì consolidare e rafforzare le frontiere piuttosto che intraprendere nuove battaglie di conquista, e consolidare la vita civilizzata al di qua del muro, ma nello stesso tempo di permettere una relazione pacifica e ordinata, sottoposta a controlli attraverso le porte, con i barbari del nord. Una relazione commerciale di interscambio ed una relazione politica, un tentativo di civilizzazione senza guerre.
Antonino Pio, in seguito, ordinò la costruzione di un secondo muro, 140 chilometri più a nord, con intenzioni di soffocare rivolte di alcune tribù, ma i suoi tentativi fallirono e dopo la sua morte il muro venne abbandonato e distrutto; fu così ristabilita l’antica frontiera del Vallo di Adriano di cui sono oggi visibili lunghi tratti a testimonianza del lungo raggio dell’espansione di Roma, ma anche del tramonto del sogno dell’ “imperium sine fine”, quel “potere senza fine” promesso da Giove a Venere per la stirpe romana, di cui Enea era l’antico capostipite, secondo il racconto di Virgilio nell’“Eneide”.
Quanto alle mura serviane di Roma furono abbandonate, parzialmente distrutte e sostituite con le mura aureliane estese per circa 19 km, fatte costruire tra il 271 e il 275 d.C. (sette secoli dopo) dall’imperatore Lucio Domizio Aureliano. In esse si aprono numerose porte, in corrispondenza di ciascuna grande via consolare; altrettanto numerose le porte secondarie. Furono restaurate e rinforzate all’inizio del IV secolo per difendere la città dalla minaccia dei Goti; per l’occasione l’altezza delle mura, che oscillava tra 6 e 8 metri, fu raddoppiata.
Le migrazione dei popoli barbari da oriente verso occidente furono un processo lungo e complesso. Nell’anno 375 (anno cruciale) la pressione degli Unni sospinse uno dei maggiori popoli germanici, i Goti, a oltrepassare il confine. Gli Unni provenivano dalle steppe asiatiche e quando comparvero intorno al 350 provocarono un effetto catena (sospinsero verso occidente le popolazioni germaniche prima stanziate nell’Europa Orientale). Così cominciò l’ultima parte delle cosiddette “invasioni barbariche”, che in realtà furono migrazioni di popoli cacciati dalla loro terre da altri popoli. In pochi anni le popolazioni germaniche arrivarono a superare il Reno ed il Danubio.
Gli imperatori Costantino, Valente e Teodosio non attuarono le stesse politiche nei confronti dei barbari. Costantino, che fu imperatore dal 312 al 324, cercò di farli integrare nel mondo romano; infatti riordinando l’esercito, fece ricorso all’arruolamento dei barbari. L’imperatore Valente invece attuò una politica totalmente diversa poiché decise di affrontare i Goti ma nel 378 ad Adrianopoli il suo esercito fu sconfitto. Teodosio, che fu imperatore dal 379 al 396, cercò un accordo con i barbari che infine accettarono di stipulare la pace e si acquartierarono nelle province romane come alleati dell'impero.
Le mura delle città innalzate a difesa del nemico invasore sono ormai resti del passato, ma continuano ad assumere il significato simbolico di esclusione. Un muro è sempre una barriera. È differente stare al di qua o al di là. Sotto la spinta dell’immigrazione, nei nostri giorni, barriere sono sorte lungo tutte le rotte battute dai disperati in fuga dalle guerre o in cerca di migliori condizioni di vita. Permettiamo a merci e capitale di muoversi liberamente, ma tendiamo a non estendere questo principio di mercato al movimento delle persone. Alziamo muri, espelliamo uomini, donne e bambini nella speranza che il mondo globalizzato nel quale viviamo possa essere chiuso dietro un muro. Non credo si possa pensare di garantire sicurezza alzando muri o chiudendo le frontiere, oltretutto quando il nemico in molti casi è all’interno.
L’Europa si mostrò contenta quando nel 1989 si abbatté il muro di Berlino che serviva a impedire ai tedeschi dell’est di espatriare in Occidente. Ora accetta che si alzino muri per impedire gli arrivi di persone che fuggono dalla guerra o sgradite perché fuggono dalla miseria. È così che, in assenza di buoni programmi e di intelligenti e lungimiranti decisioni, alcuni stati provvedono a erigere muri che ci proteggano e ci separino da loro, gli “altri”, ma sono iniziative destinate a fallire.
Sarebbe opportuno riflettere su un proverbio cinese che recita “Sono più numerosi gli uomini che costruiscono muri di quelli che costruiscono ponti”.
Nota: l’immagine è una foto del Vallo di Adriano

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