Esilio, perdita della propria identità.Testimonianze di Cicerone,Seneca, Ovidio.
di Maria Pellegrini.
Ogni giorno assistiamo a tanta umanità disperata che fugge da guerre e miseria attraversando il mare in barconi fatiscenti, rischiando la vita con la speranza di un domani migliore. Molti annegano, e per loro il sogno di una esistenza priva di stenti e violenza resta una triste chimera. Ma quelli che sfuggiti alla morte riescono ad approdare sulle nostre sponde vivono una drammatica situazione di esilio, lontani dalle loro case, dai loro affetti; per i tanti scappati da paesi in guerra, rimane invece il dolore per la morte di parenti, amici, figli, e nel cuore il ricordo delle macerie delle città bombardate.
Grandi masse migratorie dall’Africa verso l’Europa e poi verso le Americhe hanno per secoli caratterizzato la storia dell’Umanità, e nei tempi antichissimi sappiamo di vere e proprie migrazioni di massa: interi popoli hanno cambiato sede per motivi più diversi, epidemie, terremoti, guerre, lotte intestine, ricerca di terre più fertili o di lavoro: Tutti questi trasferimenti non sono altro che forme “esilio”, di distacco dalla propria terra, dalla propria comunità civica e familiare, una frattura che interrompe la continuità della propria esistenza.
L’immagine dell’esilio che si ricava dalle testimonianze letterarie latine è quella di una morte civile: lontano dalla patria, dagli amici, ed escluso dalla vita politica e civile, l’esule sente di essere quasi “un morto vivente”.
Cicerone, nel 63 a.C., condanna a morte i congiurati che hanno preso parte al tentativo insurrezionale di Lucio Sergio Catilina senza dar loro la possibilità di appellarsi al popolo, come vuole la legislazione vigente. Nel 58 a.C. Publio Clodio per vendicarsi di Cicerone, suo nemico giurato, propone una legge che prevede l’esilio, dunque la morte civile, per chiunque abbia condannato a morte un cittadino romano senza permettergli di appellarsi al popolo. Cicerone per precauzione preferisce lasciare Roma, pensando che questo possa essere un modo per sfuggire alla pena o comunque per salvarsi la vita. S’imbarca a Brindisi e si ferma a Tessalonica, l’attuale Salonicco.
Lo condannano in contumacia all’esilio, alla confisca dei beni e anche alla morte nel caso si trovi in un raggio di 750 Km da Roma.
Inizialmente l’esule scrive ad Attico: “I miei nemici mi hanno privato delle mie cose, ma non mi hanno privato di me stesso”. Ma poco dopo, nell’agosto dello stesso anno, con diversi sentimenti così scrive all’amico: “Sento la mancanza non solo delle mie cose e dei miei cari, ma di me stesso. Infatti, io che cosa sono?”
Non permette che il fratello vada a trovarlo e gli scrive: “Non volevo che mi vedessi. Infatti non avresti visto tuo fratello, non quello che avevi lasciato, non quello che conoscevi, non quello da cui ti eri congedato piangendo, di lui nemmeno una traccia, nemmeno un’ombra, ma solo l’immagine di un morto che respira”.
L’esilio è dunque considerato un evento drammatico per chi vi è obbligato: significa la perdita del proprio io, della propria identità, della vita abituale, della comunità cui appartiene, ed è anche un disagio culturale. L’esule, come il profugo che ora sbarca sulle nostre coste, disperato per aver perso tutto, sradicato dal suo mondo, si trova in luoghi sconosciuti tra gente sconosciuta, di cui non conosce la lingua, le abitudini, e tutto diventa minaccioso anche perché non sempre l’accoglienza è ben accetta, anzi spesso vista con ostilità.
Un altro esule celebre, il poeta Ovidio, è relegato da Augusto a Tomi sul mar Nero nell’8 d. C. , coinvolto in un grave scandalo, un torbido fatto di corte di cui non conosciamo i particolari, ma anche per aver pubblicato l’“Ars amatoria” massima espressione della sua poesia di amore lascivo, contraria alla restaurazione dei costumi voluta da Augusto. Lamentando ripetutamente la propria condizione di emarginazione sociale e intellettuale, scrive: “Non sono quel che ero”.
Ovidio, costretto ad essere relegato ai confini del mondo allora conosciuto, finirà la sua vita a Tomi sul Mar Nero (l’attuale Costanza, in Romania, dove ancora oggi c’è un monumento a lui dedicato). Lì scrive i “Tristia,” elegie dettate dalla disperazione per essere stato costretto a vivere solo in un paese freddo e sconosciuto, circondato da barbari dalla lingua incomprensibile, che i romani di allora chiamavano Geti. Compone anche le “Epistulae ex Ponto”, lettere in versi indirizzate a vari personaggi romani (tra cui la terza moglie del poeta, rimasta a Roma) che spera possano intercedere presso l’imperatore affinché gli conceda la fine all’esilio o quanto meno, il trasferimento in una località più vicina a Roma. Ricorda la tristezza della sera prima della partenza:
“Piangevo, e la moglie amorosa piangendo mi abbracciava /e una pioggia di lacrime le bagnava le guance. Tre volte toccai / la soglia, tre volte mi sentii trattenuto, e il piede si faceva /più lento. Più volte avevo detto addio, ma ancora a lungo / parlavo, e come se partendo dessi gli ultimi baci. /Addio Roma, non mi rivedrai mai più vivo”.
Le poesie alla moglie contengono frasi tenere e struggenti:
“Anche te, che io lasciai giovane partendo da Roma / è credibile che sia invecchiata in seguito alle mie disgrazie. /Oh, gli dei facciano che io possa vederti così, / e baciare teneramente le tue chiome mutate, / e stringere tra le mie braccia il tuo corpo dimagrito”.
Trova conforto scrivendo versi:
“Grazie a te Musa. Infatti tu mi dai sollievo,/ tu sei tregua e rimedio agli affanni / È pur qualcosa alleviare i mali fatali con le parole /ma com’è mesto il mio stato, così è mesto il mio canto, /essendo lo scritto conforme al suo argomento”.
Gli mancano i libri, la società romana, l’Urbe. Per primo Ovidio ha cantato la nostalgia di Roma, che egli chiama sempre Urbe, la città per eccellenza.
Seneca, altro scrittore e filosofo che ha provato la tristezza dell’esilio, è mandato in Corsica accusato di adulterio con Giulia Livilla, sorella dell’imperatore Caligola. L’isola gli fa una pessima impressione, il paesaggio gli appare dirupato da ogni parte, gli abitanti selvaggi, il clima insopportabile. Amareggiato e deluso, trova conforto nella filosofia che egli avrebbe voluto al servizio del bene comune e dello Stato, e ora gli è utile per sopportare la durezza dell’esilio e la sua sventura. Quando scrive alla madre per consolarla della sua lontananza (“Consolatio ad Helviam matrem”), sotto l’influsso del pensiero filosofico stoico sostiene la tesi della irrilevanza del luogo per la felicità, e le confessa che l’esilio non è un male perché non ci può privare dei due beni più preziosi: la natura umana, che abbiamo in comune con tutti i nostri simili, e la virtù personale, che possiamo praticare in qualunque luogo ci veniamo a trovare.
Dopo un paio di anni, però, temendo che dopo l’esilio possa esserci la condanna a morte come succedeva a tanti esiliati, è indotto a scrivere una “Consolatio ad Polybium”, un potente liberto al quale era morto un fratello. Un’occasione presa a pretesto per rivolgersi a Polibio, incaricato dall’imperatore Claudio di occuparsi delle pratiche e delle suppliche che giungevano a lui e di esprimere il suo parere, spesso determinante. Seneca gli ricorda come esemplare sia stata la decisione di Cesare e di Augusto che hanno avuto clemenza nei confronti di condannati, e auspica che Claudio, al contrario di Caligola, torni a battere la via della clemenza, concedendogli la grazia, o almeno di non condannarlo a morte riservandogli la speranza di restare in vita.
Seneca, scrivendo alla madre, afferma che l’esilio non toglie la capacità di esprimere la nostra virtù, né la capacità di essere noi stessi, ma per confermare questa sua idea la invita a considerare “che la quasi totalità di coloro che vivono a Roma sono privi di patria, confluiti dal mondo intero, per le più diverse ragioni, in una città che non è la loro”.
Dunque Seneca ci dà testimonianza che la città di Roma è in realtà abitata da un’umanità senza patria, ma va oltre perché scrive che “non solo a Roma ma neanche in tutto il mondo riusciresti a trovare una terra che sia ancora occupata dai suoi abitanti originari: tutto è frutto di mescolanze e innesti, ovunque popoli e individui, attraverso i secoli, hanno continuamente peregrinato e mutato insediamento, e continuano incessantemente a farlo ancora oggi, e nessuno occupa più la sede originaria”. Ricorda anche le peregrinazioni di Enea uno dei tanti eroi, che dopo la guerra di Troia vanno dall’Oriente in Occidente, in terre estranee, e successivamente rammenta che il profugo consacrato nel poema virgiliano, è accolto da popolazioni italiche che a loro volta hanno alle spalle diverse origini e diversi spostamenti e spaesamenti.
Ma non tutti riescono, come il filosofo Seneca, a non sentire il disagio provocato dalla invasione di stranieri, diversi per aspetto, per colore della pelle, per abbigliamento, e c’è chi - come ai nostri giorni - si lamenta perché i nuovi arrivati, occupando gli spazi fisici della città, mutandone vistosamente la fisionomia, gli spazi dell’economia, del lavoro, della produzione, praticando riti diversi, compromettono l’identità della propria comunità. Ma lo stato romano si mostra disponibile a mettere in gioco la propria identità per coinvolgere gli apporti delle diverse popolazioni che intende integrare nel suo sistema di controllo politico, accettando senza grandi problemi la compresenza di numerosi culti (Iside, Magna Mater, Mitra), provenienti dalle più svariate regioni.
Certo, ci sono differenze profonde tra il mondo antico e quello in cui viviamo. Ma credo che allora, come oggi, ci voglia il coraggio della disperazione per lasciare la propria terra e partire, senza grandi speranze di ritorno, verso un orizzonte ignoto e con un’altissima probabilità di perdere la vita.
È stata attribuita al filosofo, matematico, astronomo Pitagora (570 a.C.), costretto a lasciare la sua città, questa frase:
“Se devi emigrare, salendo sulla nave distogli lo sguardo dai confini che ti hanno visto nascere”.
Nota: l’immagine è di www.arte21.it

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