Le prime Olimpiadi nel Anno 776 a. C. (23 anni prima della fondazione di Roma).
di Maria Pellegrini
L’idea di celebrare, anche con competizioni sportive, le festività religiose e i riti funebri di eroi caratterizzò fin dai tempi antichi la civiltà greca.
La prima descrizione di gare atletiche è nel libro XXIII dell’Iliade in cui sono narrati i giochi organizzati da Achille per onorare la morte dell’amico Patroclo, ucciso da Ettore. Omero si potrebbe considerare il primo cronista sportivo che ha descritto con ampiezza di particolari lo svolgersi delle gare, i partecipanti, i premi. Di fronte alla sepoltura dell’eroe si svolse un grandioso spettacolo di forza, agilità, destrezza in cui si cimentarono i prìncipi greci: corsa di carri, corsa a piedi, gara di boxe, lancio del peso, del giavellotto, tiro con l’arco. Queste gare omeriche furono anticipatrici dei futuri giochi di Olimpia.
Dopo la testimonianza del poema omerico, le prime notizie sulle gare atletiche riguardano la loro organizzazione regolare con la documentazione dei vincitori. Nel 776 a. C. iniziò in Grecia l’era dei giochi di Olimpia, città del Peloponneso, in onore di Zeus. Altre gare sportive panelleniche (tutti i greci potevano partecipare) furono organizzate agli inizi del VI secolo a. C.: i giochi Pittici, in onore di Apollo a Delfi; quelli Istmici, sull’Istmo di Corinto, dedicati a Poseidone; i Nemei, a Nemea in Argolide per Zeus, re degli dei.
Il poeta lirico Pindaro, vissuto in Grecia tra il 500 e il 400 a.C., tra i cosiddetti “giochi panellenici”(Olimpici, Istmici, Pitici, Nemei) elogiò e cantò soprattutto quelli che si svolgevano a Olimpia:
“Come l’acqua è il più prezioso di tutti gli elementi, /come l’oro ha più valore di ogni altro bene,/ come il sole splende più brillante di ogni altra stella, /così splende Olimpia, mettendo in ombra tutti gli altri giochi”.
Le manifestazioni sportive olimpiche avevano anche una funzione politica. Innanzitutto, erano la principale occasione di aggregazione per i Greci, insieme al teatro, ed erano quindi motivo di rafforzamento dell’identità greca. Rappresentavano, inoltre, un momento di pace o, meglio, di sospensione delle guerre per il mondo greco; durante lo svolgimento delle gare vi era da parte dei “messaggeri di pace” la proclamazione della tregua, che sanciva la sacralità del territorio di Olimpia.
I giorni di apertura e chiusura erano riservati esclusivamente ai riti e ai sacrifici agli dei. Potevano partecipare solo i cittadini greci, esclusi gli stranieri, le donne, gli schiavi, i sacrileghi. Lo scopo degli atleti era di primeggiare e di mostrare la superiorità fisica nei confronti dell’avversario. Il desiderio del primato e della gloria che ne consegue, il disprezzo per lo sconfitto erano i valori fondanti dell’etica dell’atleta antico e del ceto aristocratico cui la maggior parte degli sportivi apparteneva.
Nel 776 a. C. la Grecia comprendeva la parte meridionale della penisola balcanica, le isole dell’Egeo e piccole regioni costiere dell’Asia Minore. Una sola gara, la corsa, si svolse per i primi tredici Giochi di Olimpia. Le specialità atletiche con il tempo divennero numerose. Il programma più ampio prevedeva, cinque o sei giorni di gare: corsa a piedi di varia lunghezza, corsa a piedi con l’armatura, corsa con il cavallo montato, corsa con il carro trainato da due o quattro cavalli, lotta, pugilato, pancrazio (un misto di lotta e pugilato in cui non era escluso alcun tipo di colpo); pentatlon (una gara che contemplava cinque specialità: corsa, lotta, salto in lungo, lancio del giavellotto). Accanto alle gare degli adulti (a partire dai venti anni) esisteva un programma riservato ai ragazzi di età compresa fra i dodici e i sedici anni, che prevedeva la corsa, la lotta e il pugilato.
Il tutto iniziava con un corteo verso Olimpia dove presso la statua di Zeus si pregava, si teneva poi il giuramento degli atleti che dichiaravano di avere i requisiti per l’ammissione alle gare; seguiva l’ecatombe, ossia un sacrificio di cento buoi. In seguito, erano sorteggiati gli atleti per la composizione dei turni eliminatori.
I giochi olimpici si svolsero ininterrottamente per undici secoli, ogni quattro anni, nel cuore dell’estate dal 776 a.C. al 394 d.C., anno in cui furono sospesi dall’imperatore cristiano Teodosio che volle cancellare ogni traccia di manifestazioni pagane. I Greci cominciarono a contare gli anni da quel 776. Il premio per il vincitore era una semplice corona composta di rami di ulivo selvatico colti nel santuario di Zeus. Nella giornata conclusiva gli atleti vincitori incoronati erano portati in trionfo, poi dopo una cerimonia religiosa, un grande banchetto era offerto ad atleti e spettatori.
Senza dubbio, i protagonisti della manifestazione erano gli atleti. Essi appartenevano all’élite sociale: erano, infatti, tutti aristocratici, dal momento che necessitavano di molto tempo libero e dovevano pagarsi degli allenatori privati, il mantenimento dei cavalli e altre necessità. L’etica dell’atleta era fondata sulla fatica, sul coraggio e sulla resistenza; era dunque necessario che avesse qualità fisiche e morali, e doveva mirare unicamente alla vittoria e al successo individuale; solo in questo modo era possibile che si eternasse la sua fama.
Come ci ricorda Pindaro: “È là, ad Olimpia, che si affrontano i corridori più veloci, là che si giudicano la forza, il valore, la resistenza alle fatiche. E il vincitore, per il resto della sua vita, conosce la felicità e la gioia. È una gioia che si trasmette nel tempo, nei giorni: è la gloria, bene supremo per gli uomini”. In un’altra ode il poeta scrive che una brutta sorte capita al secondo classificato che avrebbe patito come tutti gli altri un “odioso ritorno a casa e una fama non gloriosa”.
Il ricordo dei più famosi atleti è stato tramandato ai posteri anche grazie all’epinicio, un genere poetico nato nel VI secolo a. C., dedicato esclusivamente ai vincitori sportivi; questa forma di poesia corale celebrativa veniva declamata durante i festeggiamenti in occasione del ritorno in patria o, più raramente, sul terreno di gara. Caratteristiche di questi componimenti erano la preghiera rivolta alla divinità patrona dei giochi (Zeus per le Olimpiadi) alla quale si chiedeva benevolenza nei confronti del vincitore e della sua famiglia, o l’affermazione che il vincitore grazie al canto del poeta diventava immortale. Il prestigio derivante dalla vittoria era talmente grande che anche importanti tiranni, come Ierone di Siracusa per fare un esempio, in prima persona parteciparono e ottennero vittorie agonali, che innalzarono la loro gloria.
Presto però cominciarono a manifestarsi, come accade nei tempi attuali, contrarietà verso i Giochi Olimpici. Fu messo sotto accusa l’estremo agonismo, soprattutto dai filosofi che mal tolleravano di vedere idolatrati i vincitori degli stadi contestando che si considerassero i primati sportivi superiori a quelli dell’intelletto. Anche Tirteo, poeta spartano del VII secolo a. C, contrariamente all’esaltazione dei vincitori degli agoni sportivi cantati da Pindaro, elogiava il valore guerriero considerando che non sono eroi gli atleti vincitori di una gara sportiva ma chi combatte e muore per la patria:
“Io non posso citare, né tenere in conto un uomo / per un primato di corsa o di lotta,/anche se è grande e grosso come i Ciclopi, /o vince correndo come Borea, il vento della Tracia. […] È lustro comune per la città, per tutti / chi in guerra resiste in prima fila / senza ripiegare nell’onta della fuga, / impegnando la vita, il cuore intrepido, / e assiste e rincuora con parole chi gli è accanto.”
Senofane, poeta e intellettuale, dallo spirito acuto e anticonformista, del VI secolo a. C., in una famosa elegia criticò gli eccessi della passione popolare per gli atleti e contrappose agli onori loro tributati la funzione ben più importante dell’intellettuale e del poeta nei confronti della comunità, affermando la netta superiorità dei valori spirituali, quali la virtù, l’intelligenza e la sapienza, sui valori puramente vitali come la forza e il vigore fisico degli atleti:
“Vale di più la nostra saggezza che la forza fisica degli uomini e dei cavalli[...] Difatti, che ci sia tra il popolo un abile pugilatore o un valente nel pentatlon o nella lotta [...], non per questo ne è avvantaggiato il buon governo della città”.
La tesi di Senofane, affermando la superiorità della sapienza sulle prestazioni atletiche, tendeva ad anteporre nella scala tradizionale dei valori l’attività del poeta e del filosofo all’attività agonistica, prerogativa dei ceti aristocratici orientati prevalentemente verso l’educazione guerriera.
Forse anche i privilegi riservati ai campioni sportivi, e i vantaggi tangibili a loro concessi contribuirono a suscitare il dissenso. Il legislatore Solone istituì un premio di 500 dracme per gli ateniesi vincitori a Olimpia. In seguito altri privilegi vennero accordati, come il mantenimento a spese pubbliche e l’esenzione delle imposte.
In questi giorni gli occhi di tutto il mondo sono puntanti su Rio de Janeiro Una luce abbagliante, quella delle Olimpiadi del Brasile, rischia di distogliere l’attenzione dalle contraddizioni della società brasiliana dove povertà e violenza continuano a regnare, specie nei quartieri più poveri. Da una parte una “vetrina” per i milioni di turisti che assisteranno ai Giochi, dall’altra una realtà fatta di povertà estrema, difficoltà finanziarie, corruzione, opere incompiute. Di recente il direttore generale di Amnesty international del Brasile, ha duramente criticato l’organizzazione delle Olimpiadi, perché è stata accompagnata da “una guerra contro i poveri, una guerra contro le favelas”. Amnesty critica anche l’aumento delle operazioni violente della polizia, che più di una volta hanno provocato dei morti.
Non vorremmo rattristare chi si appresta a seguire le gare sportive trasmesse dai teleschermi con l’immagine triste di un Brasile dove le disuguaglianze sociali sono sempre maggiori, ci limitiamo a ricordare una favoletta di Esopo (poeta greco del VI se. a.C.) che a suo modo vuole insegnarci a non esultare troppo per le imprese dei nostri atleti preferiti:
Un atleta si vantava per la sua vittoria nella lotta. Un saggio gli chiese se l’avversario sconfitto fosse più forte. Il giovane sportivo rispose stizzito: “La mia forza era di gran lunga superiore”. “E allora” replicò il saggio “di che ti vanti? Che onore hai conquistato se, essendo più forte, hai sconfitto un avversario più debole?”
Nota: immagine di www.arte21.it

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