“Est modus in rebus”. Il senso della misura in Orazio
di Maria Pellegrini.
“Vedi come si erge candido / d’alta neve il Soratte! I boschi al peso / non reggono, fiaccati, e per l’acuto /gelo si sono rappresi i fiumi. / Dissipa il freddo deponendo legna /sul focolare, in abbondanza, e mesci /da un’anfora sabina a doppia ansa, / o Taliarco, vino di quattr’anni! Lascia il resto agli dei […] Cosa accadrà domani, tu non chiedere./ Se un altro giorno ti darà la Sorte, / ascrivilo a guadagno e non spregiare,/ora che sei giovane, le danze e i dolci amori,/ mentre è lontano dalla tua verde età il tedio della vecchiaia.[…]”
Il paesaggio descritto in questa ode del poeta latino Orazio - d’età augustea - è invernale, il luogo è la campagna sabina, dove egli ha una villetta donatagli da Mecenate, braccio destro di Augusto. Il monte Soratte splendente di immacolata neve si staglia all’orizzonte, i ruscelli ghiacciati non scorrono più, il tempo sembra sospeso, quasi per incantesimo il paesaggio è senza vita, senza movimento, senza suono, senza colore, soltanto il candore della neve. Il poeta esorta il giovane amico, suo ospite, a scacciare il freddo ravvivando il fuoco, a versare senza risparmio il vino per aprire il cuore alla gioia, allontanare dall’anima ogni tristezza senza pensare a ciò che accadrà, lasciato al potere arbitrario delle divinità, e a dedicarsi alle gioie della giovinezza, agli amori e alle danze finché è lontana l’età della canizie.
Orazio, un provinciale del sud, figlio di un liberto, e dunque di umili origini, presentato da Virgilio al potente Mecenate, ne diventa l’interlocutore prediletto. In realtà è un uomo infelice, diviso fra grandi ambizioni, un profondo tormento letterario (egli è il più raffinato verseggiatore dell’intera storia della poesia latina) e soprattutto un’ossessione costante della vecchiaia, del trascorrere veloce e inarrestabile del tempo, dell’apparire delle rughe e dei malanni fisici come preannuncio del disfacimento finale e della morte.
Fra tanti elogi della vita semplice e appartata, lontano dagli affanni della città, centrali sono i temi della vecchiaia e della morte, che dominano i suoi carmi più belli. L’uomo vive in un’angoscia senza tempo, cui può essere di conforto solo l’illusione dell’amore, dell’amicizia. Mai forse con tanta semplicità e solennità è stato espresso il trascorrere del tempo, e l’incalzare della morte:
“Ahimè fugaci, Postumo, Postumo, / trascorrono gli anni, né un animo / devoto potrà ritardare l’incalzante/vecchiaia, le rughe, l’inesorabile morte […] Dovremo lasciare la nostra terra, la casa, / l’amata sposa. Degli alberi che coltivi,/ nessuno, fuorché l’inviso cipresso,/ seguirà te, effimero padrone”.
Unica conforto il pensiero che la morte giunge inesorabile per tutti:
“La pallida morte batte con piede uguale le povere capanne / e le torri dei re. O mio felice Sestio, / il breve corso della vita vieta lunghe speranze”.
La presenza della morte, o meglio la costante consapevolezza del proprio individuale destino di morte, è percepita come una minaccia, un agguato costante. Ne è emblematico esempio un evento occorso ad Orazio mentre passeggiava tranquillo in un suo campo: un albero, cadendo improvvisamente, lo ha risparmiato fortunatamente. Quindi non solo la battaglia per il soldato, il mare per il marinaio, sono insidiosi: “l’imprevedibile forza della morte sempre colpì e colpirà la gente”. Forte e rassegnata è la consapevolezza della fragilità delle cose umane, delle fittizie gioie con cui colmare il vuoto del presente:
“Non chiedere, o Leuconoe (è illecito saperlo) qual fine / abbiano a te e a me assegnato gli dei, / non scrutare gli oroscopi babilonesi. Quant’è meglio accettare / quel che sarà! Ti abbia assegnato Giove molti inverni, / oppure l’ultimo quello che ora affatica il mare Tirreno / contro gli scogli, sii saggia, filtra vini, tronca / lunghe speranze per la vita breve. Parliamo, e intanto fugge l’invido / tempo. Afferra l’oggi, credi al domani quanto meno puoi”.
Non importa che l’ultimo verso di questa ode esorti a godersi l’oggi (“carpe diem”), quello che domina è la frase finale: “credi al domani quanto meno puoi”, un’esortazione ai fuggevoli piaceri presenti offerti dalla compagnia di amici selezionati e fedeli, dal vino che scioglie gli affanni, dal fresco del pergolato d’estate, dal camino acceso d’inverno, e dall’amore. L’unica reale possibilità di superare la morte è posta nella certezza del valore salvifico della poesia. Muore l’uomo non il poeta: “non omnis moriar”, ‘non morirò del tutto’, scrive a chiusura del libro III delle Odi. La poesia affida all’eternità la memoria del cantore e di ciò che ha cantato.
Un dato è bene tenere presente: il periodo storico entro cui si svolge la vita di Orazio nasce dalla violenza. La presa del potere da parte di Ottaviano è un atto violento e: “quando un partito ha trionfato con la violenza e si è impadronito del controllo dello stato, sarebbe follia considerare il nuovo governo come un’accolta di personaggi simpatici e virtuosi […] La storia e la scandalistica ci tramandano testimonianze sufficienti a smascherare la cruda realtà del loro dominio, lo splendido alone di gloria che li circonda può abbagliare ma non accecare. […] Logorato, fiaccato da guerre civili e disordini, il popolo romano era pronto a rinunciare al privilegio della libertà e a sottomettersi al governo assoluto.” (Ronald Syme, “La rivoluzione romana”)
Dunque l’adesione di Orazio alla politica augustea non deve essere considerata come un supino ossequio ai voleri del Principe. Come molti suoi concittadini egli guarda con favore e gratitudine alla pace restaurata. L’ideologia del Principato converge, per molti aspetti, con l’indole e altri modelli filosofici del poeta: il biasimo del lusso, l’elogio della moderazione e della “virtus”, la restaurazione degli antichi costumi come rimedio alla decadenza di quelli attuali, l’intento di improntare l’azione di governo a valori quali la “pietas”, la “clementia” e la “iustitia”. E ciò compensa il sospetto di cortigianeria tante volte affiorato nella mente di chi legge alcune odi celebrative di Augusto e il “Carmen seculare”, un inno agli dei protettori Roma in occasione dei Ludi secolari.
Orazio - che viene spesso ricordato come il poeta della serenità classica e dell’equilibrio dei sentimenti - è in realtà un uomo ansioso, schivo, lunatico, sofferente nella mente e nel corpo, ama la solitudine e preferisce il ritiro nelle due villette, donategli da Mecenate. La ricerca della felicità è un’illusione, è preferibile vivere il presente senza l’angoscia per il futuro. Ed è proprio l’ansia e l’irrequietezza legata all’insoddisfazione che porta l’uomo a cambiare luogo, ma in realtà è una fuga da se stesso, come suggerisce il poeta:
“Perché intrepidi in una vita così breve / facciamo tanti progetti? Perché cerchiamo / terre scaldate da un altro sole? Chi mai / lontano dalla patria riuscì a fuggire se stesso? […] L’animo lieto del presente aborrisca /affannarsi per ciò che è futuro, e con quieto / sorriso temperi l’amarezza: non c’è felicità piena”.
La sua grandezza di poeta è quando canta sentimenti semplici e comuni, che poi sono quelli essenziali della esistenza umana. Vero messaggio morale della sua poesia, è il precetto “in medio stat virtus” che deve essere considerato come l’equilibrio morale e intellettuale contro ogni forma di fanatismo (oggi diremmo integralismo o fondamentalismo): un equilibrio basato a sua volta sul “senso della misura”(“est modus in rebus”). Il segreto della sua vocazione poetica e al tempo stesso di una sua almeno parziale riconciliazione con la vita consiste nella “mediocritas” non già nel senso corrivo di “mediocrità”, ma in quello etico di equilibrio della mente e dei sentimenti, ma questa “misura” è un ideale aristocratico (aristocrazia intellettuale e morale, s’intende), forse nutrito da un segreto disincanto, da una mancanza o da una repressione di stimoli e impulsi che altrimenti avrebbero teso alla “dismisura”, all’eccesso.
Quando ha avuto in dono la villetta sabina con un po’ di terra, Orazio è felice e in una delle sue Satire chiede a Mercurio, il suo protettore, soltanto che conservi intatti i doni che ha già:
“Era proprio questo il mio sogno: un pezzo di terra,/ non tanto grande, con un orto e una fonte sorgiva presso la casa,/ e anche un pochino di bosco. Altro non ti chiedo, o Mercurio, /se non di rendermi stabili questi doni. Se è vero /che io non ho accresciuto con le mali arti il mio patrimonio/, né lo consumerò con i vizi e le colpe, allora ciò che possiedo mi basta e mi rende felice”.
Canta la gioia di essersi liberato della città: la fatica di alzarsi presto anche in inverno perché deve essere il garante per qualcuno; il fare a pugni con la folla per passare; le raccomandazioni di coloro che credono che egli abbia una grandissima influenza presso Mecenate e che conosca tutti i segreti di stato (al contrario, Mecenate non ama le chiacchiere e parla con lui di cose senza importanza).
Tra tante seccature Orazio anela alla campagna come alla felicità fatta di gioie semplici: le cene con i vicini, le conversazioni sulla virtù, sul sommo bene, sull’amicizia.
Roma, nella quale pochi anni prima Orazio riusciva a isolarsi nella sua meditazione morale e nella sua poesia, ora che è divenuto personaggio noto e troppo amico dei potenti, non gli concede più nessuna calma né gioia. Il poeta è infastidito dalla folla petulante, insofferente verso coloro che lo invidiano e desidera solo una vita quieta e tranquilla. Nella sesta satira, di cui sopra si è citato l’inizio, sviluppa una lode convinta della vita di campagna, contrapponendola ai disagi e alle fatiche che comporta l’abitare a Roma. Il contrasto fra i due modelli di esistenza è riproposto nel celebre apologo conclusivo che ha come protagonisti un topo di campagna e quello di città, favola che abbiamo letto nei nostri libri d’infanzia.
Orazio è autore di altre opere poetiche (Epodi, Epistole e Satire) Ma lo specchio più fedele della psicologia dell’uomo Orazio, con i suoi crucci e le sue meste gioie, più vicino all’animo del lettore, e forse all’umanità civile ed equilibrata in genere, restano le Odi ove domina il senso della solitudine, dell’amore impossibile, della rinunzia, della vecchiaia, della morte e, come antidoto a tutto ciò, il culto dell’equilibrio psicologico e della misura nell’agire.
Nota: Immagine del monte Soratte di www.arte21.it

Recent comments
12 years 13 weeks ago
12 years 13 weeks ago
12 years 13 weeks ago
12 years 13 weeks ago
12 years 13 weeks ago
12 years 13 weeks ago
12 years 13 weeks ago
12 years 13 weeks ago
12 years 13 weeks ago
12 years 13 weeks ago