C'è una domanda alla quale ci siamo troppo a lungo sottratti, ignorandola o esorcizzandola con un'affermazione enfatica quanto non dimostrata e che, nel momento in cui ci accingiamo a promuovere la nascita di Sinistra Italiana, non possiamo più eludere. La domanda – che a me pare fondativa di qualsiasi pretesa di autonomia e della stessa ragion d'essere di un nuovo partito della sinistra in questo drammatico esordio del XXI secolo- era implicita nella felice intuizione che ci ha indotto a chiamare Cosmopolitica il nostro primo appuntamento identitario, e può essere formulata in vari modi; ma il più diretto, a costo di una qualche semplificazione, suona così: un altro mondo è davvero possibile?

Dico che la domanda è fondativa e ineludibile perché credo che la nascita di un nuovo partito si giustifichi a tre condizioni:

a) che la risposta sia positiva: sì, un altro mondo è davvero possibile;

b) che tale risposta abbia un fondamento razionale, non sia cioè l'espressione di un wishful thinking che adatta la realtà alle nostre aspirazioni, ma sia sostenuta da un'argomentazione realistica: da una lettura del processo storico e da una ricognizione accurata delle tendenze in atto e delle forze in campo;

c) che al pensare corrisponda un agire: una selezione di temi.coerente con la visione d'insieme, l'attitudine a verificare nella pratica la bontà dell'analisi e, se necessario, correggere il tiro.

Vorrei dunque svolgere qualche considerazione a sostegno di queste tre affermazioni.

a) Il legame tra possibilità di un'alternativa globale e legittimità storica di un nuovo partito può apparire talmente scontato da rendere superfluo ogni ulteriore ragionamento: non ha senso impegnare la propria vita nel cambiamento delle cose se si ha la ragionevole certezza che le cose, per una lunga fase, non potranno cambiare; speranza e progetto politico sono indissolubili, senza l'una l'altro non di dà.. E però molti indizi ci spingono a pensare che l'idea contraria – l'idea che i cambiamenti maturati negli ultimi trent'anni siano ormai così profondi e radicati, e i rapporti di potere così squilibrati da rendere impossibile ogni rovesciamento- abbia fatto tanta strada da essere ormai senso comune: nella pubblica opinione, tra le file di quelli che più di tutti sarebbero interessati al cambiamento e, a dirla tutta, anche dentro ciascuno di noi. Non è del tutto inutile, allora, dirci apertamente che se la risposta è no, se un altro mondo non è possbile almeno per una lunga fase, allora hanno ragione tutti quelli che in questi anni abbiamo criticato: i cittadini che non vanno più a votare; i politici che si limitano ad amministrare l'esistente e le sue compatibilità; e persino, nel loro delirio, gli opposti estremisti che funestano le nostre vite: da un lato quelli che teorizzano l'ideologia della fortezza assediata e ne praticano le conseguenze, dall'altro i macellai della jihad vendicatrice (segnalo in proposito quattro illuminanti interviste nell'ultimo numero dell'Internazionale). Se la risposta è "no, nessun altro mondo è possibile" allora si spiega come mai in dieci anni (tanti ne sono passati dalla nascita del Pd) non siamo riusciti a riscuotere un consenso significativo e promuovere miglioramenti concreti nella vita delle persone; si spiega il successo di forze che interpretano non la volontà di cambiare le cose ma la rabbia per come le cose cambiano e la ricerca di un capro espiatorio cui attribuire la responsabilità del disastro; si spiega persino perché la nostra discussione venga costantemente risucchiata dal tema delle alleanze, riducendosi a volte ad una imbarazzante disputa sulla scelta del "meno peggio" tra Pd e M5S. Senza una ragionevole fiducia nella possibilità concreta di avviare in questa fase storica un cambiamento reale del mondo, certo graduale ma effettivo, e senza che questa possibilità sia resa evidente agli occhi di larghi strati di popolo, la proposta di dare vita ad un nuovo partito di sinistra è destinata ad apparire improbabile e velleitaria. A contraddirla in nuce è, prima ancora che la forza dell'avversario, una sorta di realismo di massa: un senso comune oscillante tra rabbia (più o meno) repressa e rassegnazione fatalistica. E' talmente radicato, questo senso comune, che tutta l'offerta politica, dalla destra al M5S al Pd, lo presuppone e si sforza di interpretarlo, declinandolo nelle sue diverse implicazioni e scontando in vario modo il rifiuto, l'indifferenza di poco meno della metà degli elettori. Ma è possibile offrire a quella domanda una risposta diversa? Gli esiti di dieci anni della nostra esperienza politica indurrebbero a dire di no, ma può darsi che i nostri insuccessi dipendano anche, forse sopratutto, dal non averla assunta in tutta la sua radicalità: anche nel momento migliore di Sinistra ecologia libertà (penso in primo luogo al contributo prezioso di Nichi Vendola) abbiamo offerto una rappresentazione efficace e simpatetica del dolore del mondo, più che una ipotesi praticabile di alternativa.

b) Per convincere altri, una risposta diversa (sì, un altro mondo è possibile) deve innanzitutto convincere noi, cioè:

deve essere fondata su una rappresentazione realistica delle cose, uno sguardo lucido sulle tendenze di fondo di questo passaggio storico;

deve contenere al suo interno l'individuazione delle forze motrici del cambiamento: si tratti di stati, di partiti, di movimenti sociali, di processi materiali e culturali in atto o in embrione.

Deve almeno lasciar intravedere, cioè, il profilo di "un movimento reale che cambia lo stato di cose presente" e non quello di una profezia o della vaga evocazione di un mondo migliore. Anche perché un mondo migliore c'è stato, lo conosciamo, lo abbiamo abitato, ma è quello che abbiamo alle nostre spalle: è migliore ma non è più posssible e prima lo capiamo, meglio è.

Se è così, ci sono silenzi e reticenze che non possiamo più permetterci, e riguardano i processi di fondo che stanno modificando, su scala globale, la vita delle persone. E' in questa reticenza, o meglio per l'assenza non di una critica ma di un progetto, di una azione impegnata a ricomporre i frammenti in un disegno, che rischia di smarrirsi la consapevolezza della vera novità del presente: il fatto cioè che per la prima volta nella storia un altro mondo è oggi tecnicamente possibile. Un mondo liberato dalla fame e dalla maggior parte delle malattie, dalla necessità del lavoro comandato, dall'ignoranza come destino irredimibile di larghe masse e di popoli interi. Per la prima volta nella storia, su scala ben più ampia e ad un ritmo ben più rapido di quanto embrionalmente accadde con la rivoluzione industriale, si vengono delineando le precondizioni tecnologiche di una vera età dell'oro dell'umanità; e grida vendetta lo scandalo, la contraddizione insopportabile tra la potenza liberatoria di questa innovazione e il suo concreto, effettivo, storico realizzarsi entro la gabbia dei rapporti capitalistici di produzione che ne condizionano le premesse e ne imprigionano le potenzialità sotto il comando di pochissimi e a loro beneficio. Questa contraddizione è talmente lampante, talmente ampio lo scarto tra ciò che sarebbe tecnicamente possibile e ciò che è praticabile nei rapporti sociali dati, che l'ideologia dominante ha dovuto, per occultare il senso delle cose, cambiare radicalmente di segno. Nel giro di un decennio, con serena disinvoltura teorica ed una sconcertante impudicizia etica, si è passati dall'esaltazione delle magnifiche sorti e progressive della società affluente in cui "ognuno è imprenditore di se stesso" alla lugubre predica penitenziale dei tanti ex trombettieri del neocapitalismo, oggi impegnati a consolidare carriere superflue quanto redditizie spiegando ai poveri che, al contrario, almeno per loro la ricreazione è finita: il diritto ad una vita decente era un sogno velleitario e quanto era stato posto a fondamento della repubblica (un lavoro, un salario dignitoso, la sanità pubblica, l'istruzione dei figli, una vecchiaia relativamente sicura, una moderata riduzione delle disuguaglianze) era invece una vacanza, uno spensierato vivere al disopra dei propri mezzi. Dura lex sed lex, è il capitalismo, baby, e non puoi farci niente. Neanche se la Costituzione dice il contrario.

Questa contraddizione, questo scarto abissale tra ciò che potrebbe essere e ciò che effettivamente è costituisce la ragion d'essere di un progetto di trasformazione sociale e illumina, per così dire, la ragionevolezza dell'alternativa. Ma ciò non significa in nessun modo che il cambiamento sia nelle cose: gli si oppongono abitudini consolidate, tradizioni, il senso comune prodotto da una paralizzante egemonia culturale, e sopratutto la spaventosa concentrazione di potere che anche il papa denuncia in quello straordinario manifesto che è l'enciclica Laudato si': un potere pervasivo, senza volto ma con poche teste e mille braccia, che muove dall'alto (la finanza, le multinazionali, l'apparato militare) ma discende per li rami e investe la politica, gli Stati, il sistema della comunicazione, la cultura, gli stili di vita. Per opporre a questo potere un progetto che abbia, almeno in prospettiva, una ragionevole probabilità di successo, abbiamo innanzitutto bisogno di due strumenti: la lente di ingrandimento, per riconoscere nel confuso agitarsi del processi storici le tendenze positive ed i soggetti che possono o potrebbero dar vita ad un campo di forze della trasformazione; e un kit con ago e filo, per provare a cucire insieme le pratiche, i soggetti, i popoli che possono riconoscersi in un progetto alternativo di società. Ricognizione e tessitura, questo è -credo- il lavoro che ci aspetta nei prossimi anni. Credo che il congresso debba servire, in ultima analisi, a dotarci di questi strumenti e ad irrobustire il filo conduttore di una ricerca e di una pratica.

c) I temi intorno a cui articolare la domanda principale (che possiamo anche formulare così: è possibile cogliere, nel corso delle cose, alcune condizioni oggettive e alcuni soggetti attualmente o potenzialmente in campo, tali da rendere plausibile una proposta radicalmente alternativa, un socialismo del XXI secolo?) possono essere selezionati in tanti diversi modi. Ne indico cinque; e li espongo sommariamente e in forma di domanda, perché non avrei le competenze per avanzare almeno un abbozzo di risposta. Credo però che su alcuni di essi sia in atto, anche nelle nostre file, una riflessione importante (penso ai contributi del Forum Beta o al prezioso documento programmatico del gruppo di lavoro sui migranti) e che sugli altri non sarebbe impossibile, per l'intelligenza collettiva che siamo in grado di mettere in campo e per gli interlocutori cui possiamo rivolgerci, produrre in vista del congresso significativi avanzamenti di analisi e di proposta.

1. La globalizzazione, i movimenti di uomini e capitali. La storia ha rapidamente fatto giustizia di tutte le narrazioni apologetiche, ma lascia sul campo tragedie epocali ed altre ne prepara, forse peggiori. Scontato il fatto che non si possa tornare indietro con atti politici opposti e simmetrici a quelli che l'hanno prodotta, ci sono scelte e decisioni correttive (sul terreno del commercio globale e dei trattati internazionali, delle politiche fiscali, della gestione dei flusssi migratori) che possano contrastare le tendenze catastrofiche e riequilibrare i rapporti di forza? Se sì, quali sono le proposte, quali le sedi in cui produrle, quali le forze che possono metterle a punto, farle proprie ed animare una battaglia intorno ad esse? Ma prima ancora: quale posto occupano questi temi nella nostra agenda politica? Quali conseguenze ricaviamo, ad esempio, dalla consapevolezza che sul tema delle migrazioni si sta giocando uno scontro che riguarda la natura stessa dell'Occidente, la sua qualità democratica, la tenuta di conquiste di civiltà che parvero definitive all'indomani della guerra antifascista ?

2. Il rapporto tra innovazione tecnologica e lavoro. E' probabilmente il tema più fecondo, quello su cui si sta consumando la sconfitta epocale del movimento operaio e di una intera generazione di giovani, ma che potrebbe invece segnare una balzo in avanti in entrambe le direzioni che il mondo del lavoro ha perseguito nella sua storia: la liberazione dal lavoro (le lotte per le otto ore e poi per le quaranta ore, il riposo settimanale, le ferie pagate, ecc.) e la liberazione del lavoro. E' davvero impossibile portare dentro il discorso pubblico il riferimento ad un modello produttivo in cui, tendenzialmente, le macchine producono le cose ed il lavoro umano si applica a bisogni più evoluti (la cura, la relazione sociale, l'educazione, la ricerca, l'arte, il tempo libero)? E' davvero impossibile che un'innovazione nata per ridurre i costi di produzione, impoverire il lavoro ed espandere i profitti possa essere piegata, per decisione collettiva e sotto la spinta di un movimento popolare, ad un disegno diverso, di incivilimento e promozione umana? Chi sono, dove si trovano, che linguaggi parlano i tanti soggetti che potrebbero animare una tale prospettiva, darle concretezza e battersi per essa? Che tipo di lotte potrebbero, qui ed ora, aprire la strada ad un ripensamento radicale dell'organizzazione sociale a partire dal tema del lavoro, della sua quantità e della sua qualità? E infine: come cambia, in questo approccio, il rapporto tra lavoro e reddito, lavoro e sicurezza sociale, lavoro e cittadinanza?

3. La biopolitica, il trend demografico, l'invecchiamento, la rivoluzione femminile. Ho elencato in disordine temi diversi ma in qualche modo affini: essi rimandano tutti, per vie diverse, ad un sommovimento profondo nell'identificazione dell'umano e nel rapporto tra uomo e natura; ad un ripensamento radicale e perturbante di certezze e tradizioni millenarie; ad una nuova configurazione della relazione tra libertà e responsabilità; all'emergere di un nuovo potere (dell'uomo sulla natura e dell'uomo sull'uomo) e, al tempo stesso, ad una redistribuzione radicale dei poteri nella relazione sociale (tra alto e basso, tra sapere e non sapere, tra vecchi e giovani, tra uomini e donne, ...). E' possibile, e come, che questi temi diventino centrali nel programma di una politica che torna a voler incontrare la vita per mettersi al suo servizio e renderla migliore ?

4. L'ambiente e le risorse del pianeta. E' il tema su cui, paradossalmente, più matura è la consapevolezza dell'opinione pubblica mondiale e persino dei governi e delle classi dirigenti, e al tempo stesso più drammatica la disuguaglianza su scala globale: una parte dell'umanità è impegnata, più o meno sistematicamente, a fare pulizia in casa propria e al tempo stesso utilizza il resto del pianeta come preda di guerra: un magazzino da saccheggiare e una discarca a cielo aperto. Si tratta di un meccanismo infernale, che sta riversando sullo stesso Nord del mondo conseguenze già oggi più pesanti dei relativi (e comunque temporanei) benefici eventualmente prodotti: le stesse migrazioni di massa sono in primo luogo la conseguenza della desertificazione, della monocultura, della connivenza tra regimi fantoccio e interessi delle grandi corporation occidentali. E' possibile, in questo quadro, saldare un percorso di ripensamento dello stile di vita e dei modelli di consumo, in parte già in atto in Occidente, con la crescita – anche grazie ai fenomeni migratori – di nuove avanguardie culturali e politiche provenienti dal sud del mondo e armate di una nuova consapevolezza circa la dimensione del problema? (Penso ad esempio – ma è solo una suggestione - al ruolo che ebbe la cultura occidentale, al tempo del primo colonialismo, nell'armare di teoria la volontà di riscatto di personaggi come Mohandas Gandhi, Ho-chi-minh o Mustafa Kemal).

5. La geopolitica, il governo del mondo, la questione democratica. E' il tema principale, ed anche quello su cui il nostro ritardo mi sembra più evidente. Di volta in volta, nel corso degli anni, abbiamo provato ad interpretare le nuove opportunità che sembravano aprirsi nello scenario mondiale (l'entusiasmante cavalcata elettorale di Barack Obama, il "socialismo" latinoamericano, le primavere arabe, la vittoria elettorale di Hollande, l' affermazione di Tsipras,...) ma non abbiamo mai dedicato qualche ora di riflessione collettiva ai loro esiti. Che giudizio diamo, al termine del secondo mandato, sulla presidenza Obama? Quale eredità lascia, e perché? Qual è il ruolo geopolitico della Russia di Putin o della Cina? E la partita tra la Grecia e l'Europa è, come credo, tuttora aperta o si è conclusa con una sconfitta? Non si tratta di distribuire voti e giudizi, ma di cogliere il senso profondo dei processi storici e fare, per dir così, un bilancio delle nostre passioni: non solo identificare le forze disponibili a promuovere un mondo migliore ma anche misurare la loro forza relativa e riconoscere gli ostacoli che vi si frappongono ed i poteri che si organizzano – quasi sempre con successo- per sbarrare la strada al cambiamento. Se non dedichiamo una riflessione sincera agli esiti delle esperienze che, di volta in volta, hanno illuminato qualche metro del nostro cammino finiremo per convincerci, noi per primi, che l'avversario è invincibile e nessun altro mondo è possibile. Analogo discorso vale per la questione della sovranità, stretta dentro una contraddizione reale e apparentemente insanabile: da un lato noi sappiamo che nell'epoca del capitalismo globalizzato gli Stati nazionali rischiano di ridurre l'esercizio della democrazia ad una contesa senza oggetto, una parodia della sovranità, e dunque sosteniamo senza incertezze la costruzione di organismi e poteri sovranazionali costituiti su base democratica; dall'altro, però, assistiamo al tradimento quotidiano che gli organismi esistenti (dall'Onu all'Unione europea) consumano sulla pelle dei popoli. E' dunque più difficile che mai, ma sempre più necessario, identificare un campo di forze (Stati, popoli, partiti, movimenti di opinione, soggetti sociali anche potenziali o allo stato embrionale) e tappe intermedie di una lotta che abbia sullo sfondo la creazione di qualcosa che somigli ad un governo mondiale: uno spazio di decisione che abbia insieme fondamento democratico e potere effettivo di incidere sulla realtà e contrastare con successo la tendenza alla guerra connaturata a questa fase della storia del capitalismo. Anche su questi temi credo che il lavoro congressuale debba aprire uno spazio di riflessione.

Luglio 2016

Fausto Gentili

https://www.commo.org/post/71200/Un%20altro%20mondo%20%c3%a8%20davvero%2...

Condividi