L’aggressiva satira di Giovenale contro le donne
di Maria Pellegrini
“Partendo dalle origini della civiltà occidentale (Esiodo, Omero, la Bibbia), dipanandosi poi attraverso il teatro greco e i grandi classici del secolare pensiero filosofico, religioso, politico e scientifico, il coro contro l’essere femminile è risultato assordante e compatto”. Così si legge nel risvolto di copertina di un recente saggio di Paolo Ercolani (“Contro le donne”, Marsilio editore) che racconta la storia dei pregiudizi sulle donne provenienti dagli autori più diversi precisando che nel corso dei secoli c’è stato “un gran discutere fra uomini per arrivare a stabilire l’inferiorità inemendabile dell’essere femminile, tanto da giustificare e anzi rendere scontata, opportuna e persino necessaria, la sottomissione al maschio”.
Traendo spunto da quanto scritto nella scheda di questo libro vorremmo qui ricordare il più violento attacco contro le donne scritto da un poeta latino vissuto tra il 50 e il 127 d.C., Giovenale, il più acre scrittore di ogni tempo. “Se la natura non lo concede, è l’indignazione che mi fa scrivere versi”: questo il suo motto. Egli è il più “arrabbiato” dei poeti contro i vizi degli uomini del suo tempo, e di ogni tempo. Nessun ambiente – i regnanti, i nobili, gli intellettuali, i mercanti, gli omosessuali, gli eterosessuali, il popolino, gli orientaleggianti, gli immigrati, i protetti e i protettori – si salva dalla sua frusta implacabile, ma il bersaglio prediletto di questo poeta, che vorrebbe forse essere un riformatore di costumi corrotti ed è invece un irriducibile reazionario, sono le donne. Giovenale in una delle sue Satire, la VI, si scaglia non solo contro i loro vizi, ma anche contro la loro emancipazione; sono dunque disprezzate le mogli infedeli o impudiche, e allo stesso modo quelle che studiano letteratura, che viaggiano, che vanno a teatro o assistono ai giochi del circo, che si occupano di politica perché il suo ideale femminile è l’antica matrona che accudisce la casa e i figli e non compare quasi mai in pubblico. Sono invece tempi, i suoi, in cui una notevole mobilità sociale ha aperto più larghi spazi all’iniziativa femminile in ogni campo, limitata tuttavia agli strati sociali superiori.
Giovenale teme quella femminile energia vitale che l’uomo non possiede e che non riesce più ad arginare, come accadeva nel passato, e scrive versi di fuoco contro i vizi delle donne, contro la loro sfrenatezza sessuale, la lussuria, il vizio per eccellenza di quelle che un tempo erano severe matrone e madri esemplari, vanto delle famiglie romane.
Lo spunto offerto al poeta per il suo violento attacco contro la natura perversa della donna è offerto dalla notizia dell’insano progetto di nozze alle quali si appresta un suo amico. Giovenale lo vuole dissuadere e ironicamente così si rivolge a lui: “Una volta eri sano di mente, e adesso, o Postumo, ti vuoi sposare? [...] Se proprio vuoi porre fine alla tua vita, ci sono al mondo tante corde per impiccarsi, si aprono nel vuoto alte e vertiginose finestre e qui vicino ti si offre il ponte Emilio” perché per il poeta il matrimonio è la sventura più terribile che possa toccare a un uomo, è preferibile darsi la morte che sottostare al dominio di una moglie. “Se proprio nessuna forma di suicidio ti piace” prosegue sconsolato “non è forse meglio portarti a letto qualche ragazzino, che almeno non litiga, non vuole regalucci e non si lamenta del tuo scarso ardore?” Questa battuta sarcastica e provocatoria non è detta per esprimere una preferenza per la pederastia al posto dell’amore coniugale, ma per denunciare l’insopportabilità della donna sposata che si concede sessualmente soltanto dietro regali, e, se spontaneamente, mostra una libidine insaziabile.
La profonda avversione del poeta per il matrimonio nasce dal rimpianto del tempo antico quando l’umile condizione di vita assicurava la castità delle donne, né permetteva ai vizi di entrare nelle case quando c’era una divisione dei ruoli e alla donna era riservato quello di “moglie fedele, sottomessa al marito, e di madre feconda e laboriosa, intenta ai lavori domestici”.
Tra i più insopportabili tipi di donna c’è l’intellettuale, la salottiera, quella disinibita, la femminista ante litteram che fa sfoggio di cultura a ogni occasione, dà giudizi critici sui poeti con detestabile loquacità, loda Virgilio, fa paralleli tra i poeti, e stordisce con le sue chiacchiere chi le capita a tiro. Le frecciate di questo poeta, ultimo satirico della letteratura latina, sono rivolte anche contro la donna della ricca società romana che ama “cingere il collo di verdi gemme e appendere alle orecchie grosse perle che tendono i lobi” e ritiene che tutto le sia lecito anche impiastricciarsi il viso con unguenti, “incurante di ungere le labbra del marito se questi si avvicina per darle un bacio”.
I versi più violenti, insultanti e grotteschi sono però quelli dedicati alla donna che si abbandona senza ritegno a sfrenati impulsi sessuali.
Sfilano così tutta una desolante carrellata di ritratti femminili poco edificanti, che sono l’emblema della scomparsa del pudore. La “pudicitia” si è allontanata da tempo da questo mondo - è il lamento del poeta -, il costume femminile è degenerato soprattutto tra le classi più elevate alle quali dovrebbe competere il compito di dare un esempio positivo invece che dare spettacolo di frequenti adulteri. Eppia, sposa di un senatore, frequenta il circo, assiste alle lotte dei gladiatori, e per amore segue uno di questi rozzi esemplari di maschio fino in Egitto abbandonando la casa, il marito e “scellerata anche i figli piangenti”. Grande è lo sdegno per questa matrona di rango che si abbassa a seguire il suo innamorato in luoghi di cattiva reputazione; il suo cuore, come quello di altre matrone, batte per i virili gladiatori. Pur abituata agli agi e alle mollezze, si mostra forte e coraggiosa nell’affrontare i pericoli e i disagi della navigazione che ha deciso per il proprio piacere, “se invece è su ordine del marito, è duro imbarcarsi, allora sì che la stiva emana un fetore insopportabile e il suo stomaco è in subbuglio, ma se va dietro all’amante, non ha problemi di sorta!”
Cesennina, altro esemplare di donna presa di mira dal poeta, ha sposato un uomo avido di soldi e lei gli ha portato in dote un milione di sesterzi. “A sentire il marito è sposa irreprensibile. A così alto prezzo egli è ben disposto a definirla pudica […] anche se sotto i suoi occhi fa cenni d’intesa e risponde ai bigliettini d’amore dei corteggiatori”.
“Ma perché fermarsi su casi privati di lussuria quando è la casa imperiale a offrire l’esempio più turpe?” si domanda il poeta ricordando Messalina, giovanissima e corrotta sposa dell’anziano imperatore Claudio, che va a prostituirsi in un bordello, sotto il mentito nome di Licisca, per il puro gusto della trasgressione e per il truce eccesso di sensualità. Poi torna al talamo imperiale con le guance imbrattate dal fumo della lucerna portando con sé il fetore del lupanare.
Dopo aver ritratto altri esempi di libidine femminile che si arricchisce di esperienze sempre più audaci, fino alla perversione, Giovenale torna a scagliarsi contro il matrimonio e a mettere in guardia chi si appresta fiducioso a celebrarlo: “Se hai il candore di chi è ligio alla moglie, se hai un animo devoto a una sola, abbassa il capo con il collo pronto a portare il giogo. Non ne troverai nessuna che abbia riguardo per te che la ami […].Non donerai mai niente se la moglie è contraria, niente venderai se essa si oppone, niente sarà comprato se ella non vorrà”. La tirannia della donna, che sa di essere amata, si estende anche nell’ambito degli affetti del marito al quale impone l’allontanamento da vecchi amici, soprattutto quelli in là con gli anni. La condizione di sudditanza cui l’uomo è costretto diventa ancora più insopportabile se una suocera vive in famiglia: “Quella insegna alla figlia a scrivere in risposta ai bigliettini inviati dal corteggiatore”, inganna i guardiani, li ammansisce con il denaro, nasconde l’amante che aspetta appartato il momento propizio per intrattenersi con la figlia adultera. Sconsolato il poeta esclama: “Che ti aspetti? Che la madre insegni costumi onesti e diversi da quelli che lei ha? Una madre disonesta alleva la figlia alla disonestà”.
Come Orazio era ossessionato dalla vecchiaia e dalla morte, cosi Giovenale lo era da una sessuofobia che forse era il risvolto di una lussuria repressa, oppure disgusto per gli eccessi del piacere sessuale. Nella satira XI, dove si lamenta per i vizi della gola e per i suoi eccessi, scriverà infatti che: “un uso sobrio dà pregio a tutti i piaceri”.
Nota: Immagine www.arte21.it

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