Voucher, che brutto nome.
La lotta al “caporalato” ha fatto epoca nella storia dei sindacati e del movimento operaio. Era una forma di schiavitù del lavoro e dei lavoratori. Nelle città del sud, negli anni ‘50 della grande disoccupazione, ma anche in decenni più recenti, braccianti agricoli e operai erano reclutati quotidianamente da un intermediario, il “caporale”, che li metteva al servizio di un imprenditore, con paghe da fame e senza il rispetto di nessuna forma di tutela in materia di orari, sicurezza sul lavoro, diritti. Era la miseria a farla da padrone e solo grandi ed epiche battaglie consentirono di eliminare, o quanto meno limitare, quella modalità di impiego che, innanzitutto, annichiliva la dignità delle persone.
Quando si dice, ritorno all’antico! La modernissima pratica del voucher lavoro riporta un po’ a quei tempi lontani. Certo, le condizioni sono diverse, perché il lavoro accessorio (al quale i voucher sono rivolti) diventa un fenomeno emerso ed è, in una certa misura, tutelato sul piano assicurativo e previdenziale. Ma quello che rimane lo stesso è, come dire?, l’impianto culturale che lo ispira, tutto a favore del committente, rivolto a mantenere e incentivare la precarietà e, attraverso di essa, ottenere una riduzione del costo del lavoro e della paga ai dipendenti.
In Umbria c’è stata una vera e propria esplosione dei buoni lavoro dopo l’entrata in vigore del job act che ne ha ulteriormente liberalizzato la pratica; da circa 150mila che erano, sono arrivati, lo scorso anno, a sfiorare i due milioni. Per ogni voucher, che costa all’imprenditore 10 euro, il lavoratore ne prende 7,50 (gli altri vanno all’assicurazione e alla previdenza). Siamo al livello della paga di una badante rumena. Non è poco? Quanto vuole all’ora un idraulico, un imbianchino o un meccanico? Non meno, sicuramente, di 20, 22 euro. E’ vero che le forme di lavoro accessorio non richiedono, per lo più, un’alta specializzazione, ma un livello di paga oraria di 7euro e mezzo, per di più saltuaria, pare un’elemosina e può forse andare bene come fonte di integrazione del reddito di chi il lavoro già ce l’ha o come retribuzione per uno studente, ma non certo per coloro e sono la netta maggioranza, per i quali, magari con famiglia a carico, costituisce la primaria o unica fonte di reddito.
La eccezionale dimensione che ha assunto il fenomeno dei buoni lavoro rende evidente che essi, in Umbria come altrove, hanno sostituito le forme di lavoro tradizionali basate sulle assunzioni in pianta stabile, quelle a tempo determinato o su altre modalità di impiego comunque contrattualizzate. Facendo un ragionamento su larga scala, è evidente che un siffatto sistema va prevalentemente a vantaggio dell’impresa e a scapito della forza lavoro. Nato come misura di flessibilità che sarebbe imposta dalle nuove caratteristiche del mercato del lavoro, ha finito per essere un inno alla precarizzazione e alla frammentazione. Che vuol dire? Il prestatore d’opera si trova “solo” davanti al committente. Ora, quello di poter contrattare individualmente con il proprio dipendente è il sogno di ogni imprenditore. E’ un sogno, dal suo punto di vista, legittimo, ma contiene il piccolo particolare che cozza contro quella che da sempre è stata la chiave usata dai lavoratori dipendenti per emanciparsi e migliorare le proprie condizioni e che si può sintetizzare nel motto l’unione fa la forza. Le conquiste ogni lavoratore sono sempre dipese da grandi lotte collettive. Quando si perde il senso di esse la storia, pur se presentata come modernità, può tornare all’indietro.
Leonardo Caponi
Questo articolo è stato pubblicato dal Corriere dell'Umbria di martedi 26 aprile 2016.
L'autore ha autorizzato la sua pubblicazione anche su Umbrialeft.

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