Imprese e lavoro, i rischi del declino. Scoperchiata la gracilità dell`Umbria.
Il dibattito sull'economia umbra che si è aperto, quasi con una qualche sorpresa, alla notizia di fonte Eurostat sul Pil per abitante che, nella nostra regione, nel lungo periodo della crisi 2008-2014, è diminuito dell'8,47%, più del doppio della media nazionale, facendo così riemergere una dimensione partìcolarmente critica delle basi produttive e sociali dell'Umbria, si è poi troppo rapidamente chiuso, con qualche nota consolatoria, in un misto di opacità e reticenza, collegate ai "segni di ripresa", che si sono segnalati, deboli, nel 2015.
Torno sul tema nella convinzione che ci sarebbe bisogno invece di ben altra tensione nella lettura critica della società regionale, anche oltre le stesse frontiere istituzionali, per analizzare strategie e comportamenti delle diverse, tante, soggettività sociali e di tutti quelli apparati che hanno un'influenza determinante sulla qualità dello sviluppo del nostro territorio. Certo, il Pil per abitante, pur importante per le sue componenti sociali e demografiche, da solo non basta per capire: sono necessari molti altri dati, che le classi dirigenti dell'Umbria posseggono da molto tempo. E prima di tutto proprio il Pii in termini assoluti e cioè la produzione effettiva di ricchezza, la cui caduta, nello stesso periodo, in Umbria, è stata molto forte e superiore di circa un terzo alla media nazionale. L'ultimo dato dell'Istat è quello del 2014 (Italia -0,4%; Umbria -0,9%). Per tutto il periodo, con l'eccezione del 2010 quando sembrò riaprirsi una fugace fase positiva, è prevalso invece il segno negativo con forti cadute, come quella del 2009 (-5,9%, ma già nel 2008 c'era stato un -1,5%), o quella calcolata dall'Istat per il periodo 2011-2014 (Umbria -6,4%; Italia -5,0%). E assieme al Pil c'è da leggere le storiche dinamiche di produttività (in Umbria inferiori di circa il 10% sulla pur bassa produttività nazionale), così intrecciate con il modello di specializzazione produttiva della regione.
Da tutta questa sequenza emerge come e quanto la crisi più lunga dal dopoguerra abbia scoperchiato una gracilità di fondo dell'economia e della società umbra con la quale è ineludibile fare i conti, ancor di più per una visione di lungo periodo. Portare perciò il tema in primo piano nello spazio pubblico ci sembra essenziale, anche per un confronto con le voci delle forze sociali oltreché delle istituzioni. Anche in Umbria c'è infatti da recuperare una centralità dei "corpi intermedi".
Possiamo aggiungere qualche altro dato sul mercato del lavoro. E' vero, come si è notato, che gli occupati, a fine 2015, sono positivamente aumentati a 360.000 dai 351 mila del 2013 e dai 355 mila del 2014 (IV trimestre). Bisogna tuttavia far bene i confronti: i disoccupati, a fine 2015 sono ancora 42 mila, la percentuale più alta della storia repubblicana, ad eccezione dell'ultimo trimestre del 2014, quando erano arrivati a 50 mila. Siamo allora tornati ai livelli pre-crisi? Non ci sembra. Ne siamo ancora lontani. Ricordo che alla fine del 2008 gli occupati in Umbria erano 380 mila e alla fine del 2007, 383 mila, con una disoccupazione pari a 22 mila (19 mila nel 2007). E non bisogna mai dimenticare come da tempo molti economisti mettono l'Umbria nelle aree di "occupazione senza sviluppo", con una occupazione che è sempre più abbondante della produzione di ricchezza. Di nuovo, in questo contesto, c'è la vicenda dei voucher e i dati sono enormi con tutto il peso che essi hanno nel mondo del lavoro, per i diritti prima di tutto. Dai 181.217 del 2010 siamo passati in Umbria a 1.091.711 del 2014, con un ulteriore balzo di circa 1'80% nel 2015: ne sono stati venduti 1.971.122.
E' dunque in tutto questo intreccio che si radica una domanda essenziale che chiede risposte difficili e anche ricerche adeguate, lontane da quel certo "laissezfaire" che da tempo sembra avere una certa prevalenza negli orientamenti e nella cultura delle classi dirigenti regionali. La questione è: perché la nostra piccola regione marca, nel lungo periodo, una crisi così netta e forte? Quali sono le contraddizioni che vengono al pettine? Di questo bisognerebbe parlare, con un più forte "spirito di verità": in altre fasi della storia umbra altri protagonisti lo seppero fare, dai democristiani ai comunisti, dai socialisti ai repubblicani, fino a taluni ceti liberali e conservatori. Guardando poi ai soggetti dell'economia c'è da tornare, alla luce di quei dati, a porsi domande sullo "stato dell'arte", per capire come le tante componenti imprenditoriali sono passate nella lunga crisi, anche trasformandosi: dalle multinazionali, alle medie imprese del "quarto capitalismo", alle retì delle imprese "resilienti", come si dice, alle micro-imprese e al lavoro autonomo, dall'agroindustria ai nuovi lavori terziari. Non ci si illuda che l'Umbria possa risalire facilmente la china, senza uno "scatto" enorme che veda protagoniste insieme istituzioni e forze sociali, mondo del lavoro e delle imprese capaci di affrontare la portata degli snodi critici. La questione cruciale di una nuova fase di investimenti pubblici e privati ha qui la sua prima radice.
(1, continua)
Claudio Carnieri
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano Il Messaggero di sabato 26 marzo 2016.
L'autore ha autorizzato la sua riproduzione anche su Umbrialeft.

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