Virgilio canta l’atrocità della guerra
di Maria Pellegrini
Uomini armati hanno fatto fuoco contro un pullman di turisti causando morti e feriti, poi si sono rinchiusi con ostaggi, nel Bardo, importante museo di Tunisi.
Questa tragica notizia il 18 marzo è rimbalzata in tutti i mezzi di comunicazione del mondo, siamo stati tutti partecipi di un atto di terrorismo che ha ferito la coscienza di coloro che amano la cultura divenuta bersaglio di questi recenti attentati alla civiltà dei popoli oltre che alle persone.
In questo museo è esposta la più ricca collezione di mosaici romani del mondo, tutti in perfetto stato di conservazione. Tra questi il mosaico che ritrae Virgilio e le Muse. Virgilio, vestito di un’ampia toga bianca decorata di ricami, regge nella mano posata sulle ginocchia un rotolo di pergamena dove sono riportati i versi iniziali dell’Eneide. Ai suoi lati due muse: Melpomene - della tragedia - e Clio - della poesia epica.
Originariamente situato nel pavimento di una casa romana di Sousse (antica Hadrumète), questo mosaico è considerato uno dei gioielli del museo poiché è uno dei pochi e - il più importante - ritratti dell’illustre poeta romano. I terroristi vogliono colpire la storia dell’umanità e della sua cultura. Non possiamo permetterlo. Ripercorriamo allora la vita di Virgilio e il suo tempo.
La vita di Virgilio - per quanto a noi è stato tramandato - è povera di eventi, mentre l’età nella quale egli vive è percorsa da avvenimenti drammatici e sanguinosi che determinano profondi cambiamenti sociali e politici. Tra il 70 a.C., anno di nascita del poeta e il 19 a.C., anno della sua morte, lo Stato romano è travolto da disordini, congiure, contrasti di opposte fazioni, da feroci guerre civili che si scatenano tra le figure dominanti di questa età: Cesare e Pompeo. Il conflitto fra i due contendenti, il primo capo dei “populares” (il partito democratico), il secondo mutatosi in paladino dell’aristocrazia senatoria, si conclude con la sanguinosa sconfitta di Pompeo a Farsàlo e con la sua morte in Egitto per mano di sicari del re Tolomeo (48 a. C.); la guerra tra pompeiani e cesariani continua tuttavia in Africa e in Spagna, ma si conclude con il trionfo di Cesare.
La vecchia repubblica, pur continuando a sussistere formalmente, è di fatto sostituita dal potere di Cesare nominato infine “dittatore perpetuo”.
Malgrado l’atteggiamento di clemenza mostrato da Cesare nei confronti dei suoi nemici, egli cade tuttavia vittima di una congiura ordita dalla nobiltà senatoria e capeggiata da Giunio Bruto e Cassio Longino (44 a. C.). Alla morte del dittatore segue altro spargimento di sangue fra gli eserciti dei cesariani e quelli dei cesaricidi. Ottaviano, nipote e figlio adottivo di Cesare, alleatosi con Marco Antonio (che nel 44 a.C. ricopriva la carica di console) e con Lepido (capo della cavalleria) costituisce un triumvirato (43 a. C.) con lo scopo di vendicare la morte del padre adottivo che lo ha nominato suo erede, di riordinare la repubblica sconvolta dalle opposte fazioni, e dividere con gli altri due triumviri le “sfere di influenza”: Ottaviano ha l’Occidente, Antonio l’Oriente, Lepido l’Africa. I triumviri marciano uniti contro i cesaricidi, ma a ciascuno sta a cuore principalmente il proprio successo personale. A Filippi (tra la Macedonia e la Tracia), gli eserciti di Bruto e Cassio sono definitamente sconfitti, i due cesaricidi si tolgono la vita (42 a. C.).
La vittoria accelera i contrasti all’interno del triumvirato. Lepido si fa da parte e preferisce accontentarsi della carica di Pontefice Massimo. Il sorgere di gravi dissidi fra Ottaviano e Antonio, che si è stabilito in Egitto presso la regina Cleopatra, provoca una nuova guerra civile. Lo scontro definitivo avviene davanti al promontorio di Azio (31 a. C.): Antonio e Cleopatra, sconfitti, si uccidono.
Dopo un secolo di conflitti, turbolenze, guerre, Ottaviano dona al popolo romano la pace, la cosiddetta “Pax Augusta”. Egli, sia pure in periodi diversi, assume sulla sua persona le cariche principali dello Stato: il consolato, il proconsolato di tutte le province dell’impero, il potere tribunizio, il pontificato massimo; ma allo stesso tempo si adopera per creare una base costituzionale al suo potere, conciliando le esigenze di un governo autoritario, capace di dare ordine e unità all’Impero, e quelle di una legalità fondata sul rispetto delle “forme” repubblicane e sul consenso del Senato (da lui opportunamente rinnovato ed epurato dei membri di esso ritenuti meno concilianti). Il Senato gli conferisce l’appellativo di “Augustus” e di “Princeps senatus”. Dalla repubblica si passa così a quell’ambigua forma di governo denominata Principato, per cui il passaggio dalla repubblica all’impero avviene gradualmente, e il titolo di “Imperator”, usato in precedenza solo per indicare il condottiero vittorioso e insignito dell’onore del trionfo, finirà per indicare anche colui che detiene il supremo potere politico.
La pace e la stabilità politica generano intorno al Principe un’atmosfera di consenso anche da parte degli ingegni migliori del tempo, abilmente conquistati alla sua causa dalla preziosa opera di Mecenate, potente e autorevole “ministro della cultura”. Il cosiddetto “circolo di Mecenate” - di cui fanno parte, fra gli altri, i poeti Virgilio e Orazio - sarà un efficace strumento di politica culturale.
Le dolorose vicende delle guerre fratricide, delle proscrizioni seguite alla vittoria su Bruto e Cassio da parte dei triumviri, le confische di terre nel circondario di Cremona (città che aveva parteggiato per Bruto), e di Mantova (colpevole soltanto di essere vicina a Cremona) allo scopo di sistemare i veterani, i profondi sconvolgimenti della vita sociale e politica avevano segnato profondamente l’animo di Virgilio, così sensibile al dolore, all’ingiustizia, ai travagli che accompagnano la vita dell’uomo, e così pensoso di fronte ai misteri e alle forze che muovono la storia. Ma poi l’ascesa al potere di Augusto e la conseguente pace lo rasserenano, ed egli, tramite anche la mediazione di Mecenate, si converte alla causa del Principe, e sarà il cantore della grandezza romana.
Quando Virgilio si accinse a scrivere il suo poema, l’ ENEIDE, la leggenda di Enea discendente dal mitico Dardano, figlio di Zeus, già esisteva, anzi ne esistevano molte versioni che avevano le loro radici nell’Iliade di Omero: “...destino è per lui di salvarsi, /perché non isterilita, non cancellata, perisca la stirpe/ di Dardano”, così dice Poseidone, il dio del mare, intervenendo per sottrarre da sicura morte Enea che aveva sfidato a duello l’invincibile Achille. (Iliade, XX, 301 e sgg.). Già nei primi versi dell’Eneide, Virgilio rivela il senso di quella lontana profezia: “Canto le armi e l’uomo che per primo dalle terre di Troia /raggiunse esule l’Italia per volere del Fato .../ e molto avendo sofferto in guerra, pur di fondare/ la città, e introdurre nel Lazio i Penati, di dove la stirpe/ latina, e i padri albani e le mura dell’alta Roma”. La missione riservata dal Fato a Enea è, dunque, fondare una nuova città e portare nel Lazio i Penati, protettori di Troia. Qui dalla stirpe di Enea sarebbero discesi i re Albani e Romolo il fondatore di Roma, destinata a dominare il mondo.
La leggenda di Enea, figlio della dea Venere, e quindi il poema di Virgilio, è un motivo di orgoglio e un’esigenza politica di Augusto che può così vantare l’origine divina della sua stirpe, la “gens Iulia” dal nome di Iulo, figlio di Enea.
La narrazione dell’Eneide si svolge intorno a due temi: il viaggio di Enea da Troia alle spiagge italiche attraverso varie peripezie (libri I-VI), e la guerra scatenatasi all’arrivo dell’eroe nel Lazio (VII-XII).
La voce di Virgilio si leva alta e dolente per cantare gli orrori della guerra, e piangere il triste destino di giovani vite spezzate: Lauso, Pallante, Eurialo, Niso, Camilla. La narrazione procede spedita verso il punto culminante del conflitto fra Troiani e Latini: il duello finale fra Turno ed Enea. Con la morte di Turno si chiude il poema.
Come già si è detto, con la vittoria su Antonio ad Azio nel 31 a.C., Ottaviano pone fine alla lunga fase delle guerre civili che avevano sconvolto tutto il I secolo a. C. (Mario contro Silla, Cesare contro Pompeo, Ottaviano contro Antonio). Ottenuta la pace egli si propone di attuare un programma di restaurazione morale riportando l’ordine, difendendo le tradizioni italiche, i valori del passato, rinnovando antichi culti, propugnando la sacralità della famiglia, la moralità dei costumi, mettendo freno al lusso, dando nuova vitalità all’agricoltura, esaltando la vita semplice dei campi.
L’Eneide si inserisce in questo contesto storico ed è in sintonia con il programma di Augusto, giacché Virgilio recupera il mito delle origini di Roma, delle sue antiche tradizioni e dei suoi valori, esaltandoli attraverso le vicende del protagonista Enea, ma anche dei popoli italici che si battono per la loro terra. E in seguito, alle doti della stirpe di Enea si uniranno, anche se in un primo tempo si scontreranno fra loro, le qualità delle fiere popolazioni italiche. La gente troiana si fonderà con l’italica e nascerà il cittadino e soldato romano che assommerà in armonioso equilibro le qualità dei due popoli.
L’Eneide si colloca nel genere letterario più tradizionale, quello epico, ma Virgilio, venendo meno al codice eroico, non esalta tanto le virtù guerresche, né la guerra che è vista piuttosto come una dura necessità per raggiungere pace e giustizia, quanto l’umanità di chi soffre per il dolore che queste comportano: “sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt”, (si compiangono le sventure, e gli eventi mortali commuovono l’animo), egli fa dire a Enea che osserva le vicende della caduta di Troia effigiate sui muri del tempio di Cartagine (I, v. 462). L’Eneide - se si eccettuano i versi del sesto canto ove il padre Anchise, incontrato da Enea nei Campi Elisi, fa una lunga profezia sulle glorie della “gens Iulia”, e consacra i Romani innalzandoli al ruolo di dominatori del mondo - è tutt’altro che un poema trionfale, e può persino sembrare un “poema dei vinti”, in cui risuonano accenti di dolore per l’atrocità della guerra e della Storia che per compiersi richiede tante vittime innocenti, oscure o illustri. Non è un caso che i momenti di più alta ispirazione coincidano con la morte in combattimento di eroi italici schierati contro Enea, e che il poema si concluda con la morte del giovane condottiero rutulo Turno.
Modelli per Virgilio furono senza dubbio i due poemi omerici Iliade e Odissea. Le analogie con Omero sono molte (non è qui il caso di elencarle); esse sono però generalmente formali ed esteriori. L’Eneide mostra elementi di assoluta originalità rispetto al modello omerico: accanto all’ammirazione per il valore guerriero v’è nel poema la costante attenzione ai moventi psicologici, ai travagli dello spirito, alle leggi misteriose che dominano i fatti e il divenire della storia.
L’originalità di Virgilio rispetto ai modelli omerici appare ancora più evidente nella seconda parte del libro con l’arrivo di Enea nel Lazio. Torna qua e là il Virgilio delle sue prime opere, le “Bucoliche” e le “Georgiche” con l’aspirazione a una vita di primitiva semplicità nel culto e nel rispetto delle antiche virtù, e il cantore della dolcezza della campagna e della natura: la grande pianura attraversata dal Tevere, il fiume “biondo di molta rena” che scorre tra il lieve ondeggiare dei pioppi riflessi sulla corrente; il risveglio di Enea al mattutino canto degli uccelli nella modesta reggia di Evandro, re di pastori e contadini, generoso e ospitale; i verdi boschi che fanno da sfondo alle violente battaglie della seconda parte del poema; l’immensità del mare, le aurore rosate che allontanano “dal cielo l’umida ombra” (III, v. 589), e i tramonti quando “il sole cade ed i monti si adombrano opachi” (III, v. 158) le notti silenziose “quando tace ogni campo, i greggi, e i variopinti uccelli” (IV, v. 526).

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