di Giulio Marcon

Una volta — per essere com­pe­ti­tivi — si sva­lu­tava la moneta, oggi si sva­luta il lavoro: meno diritti, meno tutele, meno retri­bu­zione. Le poli­ti­che neo­li­be­ri­ste si sono basate in que­sti decenni su quat­tro pila­stri: la ridu­zione della spesa pub­blica e del ruolo dello Stato; le pri­va­tiz­za­zioni e le libe­ra­zioni (a par­tire da quella della cir­co­la­zione dei capi­tali); gli inve­sti­menti pri­vati (il mer­cato) e la pre­ca­riz­za­zione del mer­cato del lavoro. La riforma del mer­cato del lavoro è una di quelle riforme strut­tu­rali cui Renzi affida la spe­ranza di rilan­ciare l’occupazione e l’economia. In realtà, come sap­piamo tutti, in que­sti anni l’esistenza di oltre 45 forme di lavoro ati­pico non ha inco­rag­giato ad assu­mere di più, ma sem­pli­ce­mente a sosti­tuire i con­tratti di lavoro con tutele con forme di lavoro pre­ca­rio, senza diritti.

Non si sono creati posti di lavoro in più, ma solo più lavori pre­cari. Nè que­ste riforme hanno avuto effetti sal­vi­fici sull’economia. Pro­prio nel Def si dice che l’impatto del Jobs Act sul Pil sarà minimo: non più dello 0,1%. Si tratta di pre­vi­sioni; e quelle del governo in que­sti vent’anni sono sem­pre state troppo otti­mi­sti­che e poi ine­vi­ta­bil­mente cor­rette al ribasso.

L’assunto dal quale si parte è noto: biso­gna met­tere le imprese nelle con­di­zioni di avere meno vin­coli e costi pos­si­bile. E così potranno assu­mere. Solo che, pro­ba­bil­mente, i nuovi assunti saranno assai pochi: la mag­gior parte dei nuovi con­tratti saranno sosti­tu­tivi, cioè tra­sfor­me­ranno rap­porti di lavoro pre-esistenti più gra­vosi in quelli più con­ve­nienti intro­dotti dalla legge di sta­bi­lità. Tutte le age­vo­la­zioni fiscali di que­sti anni, le imprese non le hanno uti­liz­zate per fare inve­sti­menti nell’economia reale, ma in quella finan­zia­ria e spe­cu­la­tiva o per arro­ton­dare i loro profitti.

La realtà è che i governi occi­den­tali di que­sti anni (e Renzi, oggi), rinun­ciano ad ogni poli­tica pub­blica attiva: non c’è una poli­tica indu­striale, non c’è una poli­tica degli inve­sti­menti pub­blici (che in 20 anni si sono dimez­zati), non c’è una poli­tica del lavoro.

Non c’è più una poli­tica della domanda (di soste­gno, pro­gram­ma­zione, inve­sti­mento), ma solo dell’offerta, dove — per quel che ci riguarda — non è più nem­meno offerta di lavoro, ma offerta di lavo­ra­tori alle con­di­zioni più van­tag­giose per le imprese. Nel frat­tempo gli ultimi dati Istat ci dicono che la situa­zione in Ita­lia con­ti­nua a peg­gio­rare. E già que­sto dovrebbe indurre i governi ad un serio ripen­sa­mento delle poli­ti­che sin qui seguite.

L’idea di lasciare al mer­cato la crea­zione di occu­pa­zione non fun­ziona e non ha fun­zio­nato mai, se non per la pro­du­zione di posti di lavoro pre­cari, effi­meri, mal retri­buiti, senza tutele. Ma quale sistema eco­no­mico e pro­dut­tivo può pen­sare di soprav­vi­vere gra­zie ad una idea di lavoro così retriva e padro­nale? Altro che moder­nità, qui siamo al ritorno all’ottocento, anche se 2.0. Un lavoro senza qua­lità porta con sè una eco­no­mia senza futuro. Senza un inve­sti­mento nel lavoro (in ter­mini di risorse, ma anche di for­ma­zione, di tutele, ecc.) non ci può essere alcuna eco­no­mia di qua­lità, inno­va­tiva, capace di com­pe­tere. Un’impresa che si serve del lavoro usa e getta, non ha spe­ranze, è di bassa qua­lità, dura poco: non ’è più impresa, ma solo busi­ness di pic­colo cabo­tag­gio (anche se magari di grande ritorno affaristico).

Ser­vi­rebbe invece una poli­tica pub­blica per il lavoro: una sorta di piano straor­di­na­rio del lavoro fon­dato sugli inve­sti­menti pub­blici per creare occu­pa­zione nella rispo­sta alle grandi emer­genze nazio­nali (lotta al dis­se­sto idro­geo­lo­gico, edi­li­zia sco­la­stica, pic­cole opere, ecc) e nelle fron­tiere delle nuove pro­du­zioni della cosid­detta Green Eco­nomy (mobi­lità soste­ni­bile, ener­gie pulite, ecc.). Ser­vi­rebbe uno Stato che fosse attivo –indi­ret­ta­mente, ma anche diret­ta­mente– nella crea­zione di posti di lavoro, attra­verso un’agenzia nazio­nale come quella (la Works Pro­gress Admi­ni­stra­tion) che fu creata da Frank­lin Delano Roo­svelt durante il New Deal.

E ser­vi­reb­bero degli inve­sti­menti pazienti (che danno riscon­tro sul medio periodo) in set­tori fon­da­men­tali per creare buona eco­no­mia e buona occu­pa­zione: nell’innovazione e nella ricerca, nel set­tore for­ma­tivo ed edu­ca­tivo e nella coe­sione sociale. E poi, biso­gne­rebbe ripren­dere un discorso che oggi può sem­brare in con­tro­ten­denza (sicu­ra­mente rispetto alle poli­ti­che neo­li­be­ri­ste), ma quanto mai attuale e neces­sa­rio: la ridu­zione dell’orario di lavoro. Se il lavoro è poco, biso­gna fare in modo che il lavoro sia redi­stri­buito il più pos­si­bile. Lasciare milioni di per­sone nella disoc­cu­pa­zione e nell’inattività è eco­no­mi­ca­mente sba­gliato, moral­mente disu­mano e social­mente ingiu­sto e pericoloso.

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