La dialettica tra antico e moderno per ricostruire il teatro Talia di Gualdo
La dialettica tra antico e moderno, tra la cristallizzazione di un mondo che non c’è più e la liquidità della forma fluens contemporanea, sembra essere il paradosso creato dalla volontà politica di ben tre amministrazioni comunali per ricostruire”nei termini di assoluta fedeltà storica” il teatro Talia di Gualdo Tadino.
Il teatro è per antonomasia il luogo della più aspra contesa: non mi riferisco alle prese di partigianeria a favore o contro un determinato artista che hanno arruffato generazioni di melomani e di cultori e riempito le pagine di cronaca locale e della grande storia (come tacere del caotico pestaggio tra i pro e i contro lo Stravinskji della Sagra della primavera a Parigi, dei fischi prolungati a Puccini per la prima della Madama Butterfly che capitolò irrimediabilmente, degli osannanti deliri per una primadonna assoluta come la Callas rivale della voce angelicata della Tebaldi). Anche le sue ricostruzioni sono state motivo di veri e propri “scandali”resi pubblici da iniziative popolari ancien règime o progressiste, che, specialmente in epoca postbellica, hanno segnato il passo delle cronache di Genova, a Milano, a Torino, dappertutto. Perché il teatro, che lo si voglia o no, vive di una dialettica interiore perennemente al bivio tra due ragioni ontologiche, che ne rivelano, cioè, completamente, la vera natura contraddicendosi reciprocamente: o rappresenta la sopravvivenza, uno scampolo, di un piccolo mondo antico, o costituisce il modello più aggiornato della filosofia contemporanea.
Anche a Gualdo Tadino.
Il dipinto del Talia datato 1805, unico documento rimasto dai tempi della sua costruzione in epoca napoleonica, è bellissimo e sembra un esempio di qualche ignota, meravigliosa architettura onirica. La sua unicità estetica pone però limiti di applicabilità architettonica, anche se la scappatoia, in architettura, dalle forme canoniche di volta in volta praticate in ciascuno degli stili vigenti nelle varie epoche, verso altrettante varietà di stili diversi e varianti, non è originalissima - anzi è piuttosto frequente nella nostra storia: basti pensare alla Basilica di Santo Stefano Rotondo a Roma, con interventi stratificati lungo l’intero arco storico fino ad oggi: integrazione, alterazione, delitto o conservazione? Molti sono anche i casi di "pezzi unici" come la "Mole" torinese e, perché no, la tour Eiffel parigina. Le fantasie locali sono poi infinite!
Quale modello concreto dovrebbero perciò imitare gli amministratori di Gualdo? E perché? Perché, poi, dovrebbero sentirsi costretti a imitare come certo un dipinto bellissimo, secondo me non affidabile in quanto progetto, in nome di una supposta e non dimostrata unicità gualdese? D'altra parte, per quale ragione critica o scientifica dovrebbero cestinarsi le loro antiche convinzioni non avendone un'altra, assolutamente certa?
Io non credo nemmeno, se non per casi forti e rarissimi - la stessa Scala, la Fenice, il Petruzzelli ecc. - al "com' era e dov'era": e poi, in epoca successiva alle meraviglie di Sidney o Parigi - anche per realtà locali microscopiche come Gualdo - non possiamo credo - per gusto personale com’è certamente il mio, anche se dettato da convinzioni di praticabilità funzionale - importunarli con proposte accreditate solo dalla nostra asserita competenza, che è solo nostra convinzione personale: il discorso cui alludo sui palchi, per esempio, sul quale ho fissato la mia attenzione (e preoccupazione), inconciliabile con le poltroncine di platea, almeno così com’è proposto dal pittogramma del Talia, è francamente discutibile e per questo degno della più alta considerazione, è tra l’altro smentito dal Renzo Piano dell'Auditorium romano o dal Teatro Regio di Torino. In questa estenuante diatriba meglio uscire fuori dal seminato autoreferenziale e invocare intellettuali colti , ma competenti nello specifico ambito dell’architettura, proponibile oggi per il teatro, affinché prestino la loro consulenza non solo sull’affidabilità pratica del documento in esame, ma anche sulle prospettive che una tale fedeltà obbligherebbe a compiere: ad esempio, è davvero importante rinunciare ad una platea conveniente per numero di posti e dall’accesso legato a ragioni di sicurezza? È davvero importante fissarsi sul prim’ordine di palchi così com’è raffigurato nel disegno, inconciliabile con le esigenze moderne della platea, che costringerebbe il pubblico a tirarsi il collo per non subire le teste di chi vi è seduto? È davvero obsoleta l’idea di modificare l’arco scenico per ampliare la profondità del palcoscenico davvero ridicola e che, comunque, non potrà avvalersi della necessaria torre scenica? Oppure rinunciare assiomaticamente al foyer, al guardaroba, a quei servizi “minori” indiscutibilmente legati alle dinamiche esistenziali, non artistiche, dello stare a teatro?
L’importante è chiarire come si spendono i soldi pubblici senza invocare alcun retro pensiero, appoggiare anche indirettamente conflitti di specificità professionale, e dimostrare la funzionalità dell’opera in corso ai veri destinatari del teatro, i cittadini. Una tale presa d’atto, tra l’altro, non riguarderebbe solamente il pubblico in cerca di visibilità ottimale accanto alla sua indiscutibile autocitazione, ma i creatori di spettacolo, i registi, gli scenografi, chi, insomma è davvero del mestiere. In altri termini, recuperare il Talia cancellando più di due secoli di storia del pensiero o categoricamente affermandone la completa affidabilità, significherebbe anche costringere le signore gualdesi a vestire abiti d’epoca alla Joséphine de Beauharnais, obbligare i galantuomini a sfoggiare pettorute marsine, oppure allestire unicamente spettacoli in crinolina?
Come si vede, l’aderenza al principio delle fedeltà storica è irto di ambiguità sia per chi lo vuole esercitare nell’arte politica, sia per chi ne vuol essere protagonista in veste si testimone di antiche tradizioni, come pure (ed è il mio caso) per chi è certo della saggezza che rappresenta, ma critico nella sua attuazione. Così come non vorrei che si abusasse ancora dell’odioso ossimoro sulla “contemporaneità della tradizione” che, è opportuno dirlo con estrema chiarezza, non significa assolutamente niente.
Molte sono le provocazioni formali derivanti comunque dal costante evolversi delle tecniche, da loro specialisti seguite, pur da noi sconosciute, e per questo doverosamente sensibili al loro richiamo.
Marco Jacoviello

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