di Giulia Siviero

Quella del licen­zia­mento discri­mi­na­to­rio è una difesa di retro­guar­dia e l’impatto con­creto di tale forma di tutela non è ade­guata alle aspet­ta­tive che in essa si ten­tano di riporre. Dimo­strare in giu­di­zio la discri­mi­na­to­rietà dei licen­zia­menti è cosa molto com­pli­cata. Per tre motivi principali:

  1. spetta al lavo­ra­tore o alla lavo­ra­trice indi­care i fatti a soste­gno della sua tesi;
  2. per rico­no­scere una discri­mi­na­zione, nella giu­ri­spru­denza ita­liana, sono in gioco ele­menti soggettivi;
  3. la moti­va­zione discri­mi­na­to­ria deve essere deter­mi­nante, vale a dire unica.

Il licen­zia­mento, per essere valido, deve avere una valida moti­va­zione e la prova di tale moti­va­zione spetta al datore di lavoro. Quando si con­te­sta la natura discri­mi­na­to­ria di un licen­zia­mento, il per­corso è invece più arti­co­lato e pro­ble­ma­tico. Quello che va dimo­strato è anche che sus­si­ste da parte del datore di lavoro l’elemento inten­zio­nale: è pre­vi­sta cioè la dimo­stra­zione di ele­menti soggettivi.

Diversa è la situa­zione nella nor­ma­tiva comu­ni­ta­ria che non sem­bra però essere ancora stata accolta dalla giu­ri­spru­denza ita­liana. La nor­ma­tiva comu­ni­ta­ria in tema di discri­mi­na­zioni si rife­ri­sce uni­ca­mente alla valu­ta­zione dell’esistenza di una discri­mi­na­zione, non richie­dendo né la con­sa­pe­vo­lezza né l’intenzionalità della sua pro­du­zione in capo a chi l’ha com­messa. Sosti­tui­sce l’elemento sog­get­tivo con quello ogget­tivo: occorre sem­pli­ce­mente valu­tare se un deter­mi­nato sog­getto, in virtù della sua con­di­zione o delle sue scelte, sia stato trat­tato in maniera dif­fe­rente rispetto a quanto sia stato trat­tato un altro sog­getto, in una situa­zione simile.

Per com­pren­dere il terzo motivo per cui il rico­no­sci­mento di un licen­zia­mento discri­mi­na­to­rio è così com­pli­cato, fac­ciamo un esem­pio: viene licen­ziata una per­sona al posto di un’altra e que­sto per­ché è una donna, si è appena spo­sata, ha tre figli di cui occu­parsi o ha rifiu­tato un’avance. Quella lavo­ra­trice potrà impu­gnare il licen­zia­mento, ma per­ché venga rico­no­sciuto come discri­mi­na­to­rio, dovrà essere in grado di dimo­strare che il motivo stesso della discri­mi­na­zione ha avuto “rile­vanza determinante”.

Que­sto signi­fica che se il datore di lavoro riu­scirà a dimo­strare invece la vali­dità di un’altra ragione posta for­mal­mente a fon­da­mento del licen­zia­mento (per esem­pio che per esi­genze azien­dali doveva sop­pri­mere un posto che risul­tava in esu­bero) que­sta seconda ragione pre­varrà comun­que sui pro­fili discri­mi­na­tori con­te­stati. La moti­va­zione discri­mi­na­to­ria alla base del licen­zia­mento, pas­serà in secondo ordine.

Certo, dopo dichia­ra­zioni, inter­vi­ste e ordini del giorno, non abbiamo un testo su cui ragio­nare e per ora pos­siamo pro­ce­dere solo per ipo­tesi. Se dell’articolo 18 o di quel che ne rimane venisse lasciato in piedi sem­pli­ce­mente il licen­zia­mento discri­mi­na­to­rio, la norma andrebbe quanto meno ritoc­cata, in modo da supe­rarne le stret­to­rie appli­ca­tive che, attual­mente, pre­clu­dono di fatto l’accesso ad una soglia di tutela sod­di­sfa­cente ed efficace.

Non va infine dimen­ti­cato di cosa stiamo parlando. La rein­te­gra­zione piena pre­vi­sta dall’articolo 18 rap­pre­senta una tutela, per così dire, di secondo livello: assi­cu­rando più ampie garan­zie in caso di licen­zia­mento, per­mette ai lavo­ra­tori e alle lavo­ra­trici di eser­ci­tare con mag­giore libertà i pro­pri diritti anche men­tre il rap­porto è in corso. Fun­ziona in uscita ma, in fondo, anche durante e fin da subito.

Tute­larlo signi­fica tute­lare il lavoro stesso.

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