di Federico Martelloni

Al con­gresso fon­da­tivo di Sel, tro­vai entu­sia­smante l’idea che si potesse e si dovesse ria­prire una par­tita a sini­stra, costi­tuendo un sog­getto che nasceva con l’esplicita fina­lità di scio­gliersi in qual­cosa di più grande. Alla vigi­lia del II° immi­nente con­gresso, so che Sel può essere utile alla sini­stra e all’Europa sol­tanto a con­di­zione di com­piere un deci­sivo passo in quella dire­zione. Senza que­sto corag­gio, non c’è futuro né per Sel né, forse, per la sini­stra ita­liana in Europa, desti­nata – come ha scritto Asor Rosa (il mani­fe­sto, 16 gen­naio 2014) – a rima­nere ine­so­ra­bil­mente muta per una lunga stagione.

Abbiamo cer­cato, in que­sti anni, un voca­bo­la­rio del cam­bia­mento. Tal­volta ne abbiamo per­sino rin­trac­ciato fram­menti, in sin­to­nia con la nostra gente e col desi­de­rio di tra­sfor­ma­zione diven­tato, non per caso, mag­gio­ranza. Poi, la «non vit­to­ria» – che forse sarebbe tempo di chia­mare «scon­fitta» – di Ita­lia Bene Comune ci ha spez­zato in bocca le parole. La ragione è sem­plice: non erano le parole giu­ste. Si faceva strada, frat­tanto, un nuovo les­sico che «rot­ta­mava» non solo e non tanto una classe diri­gente col­pe­vole di errori e scon­fitte, ma un intero secolo – tanto duro quanto pre­zioso – di sfide col­let­tive e assalti al cielo: «il secolo della poli­tica» lo ha chia­mato un ragazzo del secolo scorso che siede, con qual­che imba­razzo, sui ban­chi del senato nelle file del Pd di Mat­teo Renzi. Così siamo usciti dal Nove­cento nel verso sba­gliato. Così è venuto il tempo dei lupi, dei legami sociali fran­tu­mati, delle reti strap­pate, delle soli­tu­dini incan­tate dalle sirene dei popu­li­smi, del lavoro come ricatto e della fine della poli­tica come riscatto. Capita di pen­sare che la scom­messa sia rima­sta appesa a cavallo di due secoli: il «culo» troppo pesante per sca­val­lare il cri­nale e venir giù dalla parte del nostro tempo.

Gio­ca­vamo, forse, nel campo sba­gliato. Per­ché, come oggi dicono i più accorti (pur tra loro diversi), da Bar­bara Spi­nelli a Toni Negri e San­dro Mez­za­dra, da Yann Mou­lier Bou­tang a Ste­fano Rodotà, il campo della sfida è lo spa­zio pub­blico euro­peo. È innan­zi­tutto in Europa che si con­suma oggi quel vero e pro­prio divor­zio tra demo­cra­zia e capi­ta­li­smo, che tanto inquieta, innan­zi­tutto le punte di dia­mante del pen­siero demo­cra­tico e per­sino libe­rale, da Streek a Bau­man, da Beck al nostro Luciano Gal­lino. È al cre­pu­scolo del modello sociale euro­peo, testi­mone del lungo matri­mo­nio tra demo­cra­zia e capi­ta­li­smo, che si avverte, per intero, quanto sia salato il prezzo delle disu­gua­glianze. Il fiscal com­pact è, da que­sto punto di vista, il miglior indi­ca­tore di una crisi che è, insieme, crisi sociale, cul­tu­rale e demo­cra­tica dell’Europa intera.

Lo spa­zio euro­peo è stato, sino ad oggi, sem­pre evo­cato e mai attra­ver­sato. È giunto il momento, per Sel e per molti, mol­tis­simi com­pa­gni di strada, di cal­pe­stare, senza ten­ten­na­menti né paure, la «terra di mezzo» che alberga tra la fami­glia socia­li­sta e la sini­stra euro­pea. Non si può, tut­ta­via, difen­dere un luogo dell’immaginario, uno spa­zio che ancora non esi­ste. O meglio: esso esi­ste nel corpo vivo della società, quello dei movi­menti per lo jus soli e i beni comuni, il red­dito di cit­ta­di­nanza e la ridu­zione del tempo di lavoro, l’accesso al sapere e ai diritti civili, il social com­pact e la demo­cra­zia. Ma va difeso e pun­tel­lato come spa­zio poli­tico, per­ché è oggi del tutto privo di rappresentanza.

Per esser chiari, se il Pse di Mar­tin Schulz è argine indi­spen­sa­bile alle pul­sioni anti­eu­ro­pee fatte di popu­li­smi riot­tosi e pic­cole patrie, altret­tanto è essen­ziale, se vogliamo bat­tere l’austerity e dise­gnare un’altra Europa, rac­co­gliere e rilan­ciare l’appello per la can­di­da­tura del gio­vane Ale­xis Tsi­pras alla pre­si­denza della com­mis­sione, con una grande lista civica di cit­ta­di­nanza europea.

È que­sta la scom­messa che Sel deve accet­tare, rinun­ciando a tutto ciò che non sia l’intelligenza e la gene­ro­sità dei com­pa­gni e delle com­pa­gne che se ne sono, sin qui, presi cura. Non basta né serve aprirsi a que­sta o quella figura, mutuare in tren­ta­due­simi stru­menti come le pri­ma­rie o, peg­gio ancora, repli­care con­sunte som­ma­to­rie di pic­cole mise­rie. Se fede­ra­zione dev’essere, sia piut­to­sto fede­ra­zione di poleis e comu­nità di base che rac­col­gono dalla pol­vere la sfida di una cit­ta­di­nanza euro­pea da gio­care in una nuova e ine­dita partita.

Abbiamo sem­pre imboc­cato, con con­vin­zione, vie poten­zial­mente mag­gio­ri­ta­rie, per gover­nare il cam­bia­mento. Non è bastato a scrol­larci inte­gral­mente di dosso i rituali della vec­chia poli­tica, e quel «voluto tacere, sor­ve­gliato par­lare, deni­grare senza odio, esal­tare senza amore…» che Paso­lini rim­pro­verò, in un tempo lon­tano, ai pro­pri compagni. Que­sto è il nodo. Fino ad oggi abbiamo, anche sin­ce­ra­mente e gene­ro­sa­mente, ten­tato di scio­glierlo. Ora si tratta di tagliarlo.

* dele­gato di Bolo­gna al con­gresso di Sel

Fonte: Il manifesto

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