Tommaso Nencioni

 

Il 26 gen­naio del ’94 Ber­lu­sconi annun­ciava, con un cele­bre mes­sag­gio tele­vi­sivo, la sua «discesa in campo». Venti anni dopo, lo stesso Berlu­sconi si trova inglo­rio­sa­mente fuori dal Par­la­mento, asse­diato da ricor­renti guai giu­di­ziari, il suo movi­mento poli­tico appare in piena crisi, diviso e sfi­brato. Si può tut­ta­via par­lare di «fal­li­mento del berlusconismo»?

Non certo del fal­li­mento della cul­tura poli­tica di cui Ber­lu­sconi si è fatto portatore.

Il suo «anti-antifascismo» – come lo ha clas­si­fi­cato il suo più lucido stu­dioso, Gio­vanni Orsina – fino agli anni Ottanta rele­gato in posi­zioni mino­ri­ta­rie dello spet­tro poli­tico, si basava e si basa su una cri­tica orga­nica al carat­tere pro­gram­ma­tico dell’antifascismo, ben tra­dotto nella nostra Costi­tu­zione. Ebbene, è pur­troppo dif­fi­cile negare che il «discorso» ber­lu­sco­niano sui limiti e i difetti con­ge­niti della carta costi­tu­zio­nale (e della demo­cra­zia dei par­titi da essa sca­tu­rita) man­tenga una salda ege­mo­nia nel senso comune di tutti gli schie­ra­menti poli­tici. A que­sto mirava la bat­ta­glia delle idee della destra ita­liana, e que­sto obiet­tivo ha rag­giunto gra­zie al berlusconismo.

Si dirà, è la cri­tica che pro­viene da ambienti del «mode­ra­ti­smo», che Ber­lu­sconi non ha saputo attuare quella rivo­lu­zione «libe­rale», della quale a parole si era pre­sen­tato come araldo. Ma, senza tirare in ballo l’utopia di Adam Smith, biso­gnerà ammet­tere che l’ordine neo-liberale è stato bene o male restau­rato nel ven­ten­nio. I par­titi asso­mi­gliano sem­pre più a club di nota­bili, sul modello libe­rale otto­cen­te­sco, che non alle ese­crate mac­chine ideo­lo­gi­che di massa che hanno strut­tu­rato la poli­tica nel Nove­cento. La pre­senza dello Stato nell’economia è oggi ai minimi rispetto agli altri paesi civi­liz­zati; «lacci e lac­ciuoli» all’iniziativa pri­vata ce ne sono ancor meno.

Biso­gne­rebbe sem­mai affron­tare un ragio­na­mento serio su come que­sta libertà asso­luta sia stata usata dalle nostre classi diri­genti eco­no­mi­che. Ma que­sto tipo di ragio­na­mento non è molto con­ge­niale al nostro «mode­ra­ti­smo», troppo occu­pato a chie­dere capar­bia­mente «di più» in que­sta sui­cida dire­zione, senza fer­marsi a con­si­de­rare le con­se­guenze di quanto fino ad ora otte­nuto.
Se si getta poi uno sguardo oltre­con­fine, ci si accor­gerà che il ber­lu­sco­ni­smo, lungi dal rap­pre­sen­tare un’anomalia rispetto al pano­rama poli­tico dell’Occidente, ben si è con­fi­gu­rato come l’aspetto ita­liano di un feno­meno più gene­rale. Il legame di ferro tra inte­ressi affa­ri­stici (diret­ta­mente rap­pre­sen­tati ai ver­tici dello Stato) e potere media­tico ha con­trad­di­stinto tanto l’Italia ber­lu­sco­niana quanto gli Stati Uniti di Bush, la Spa­gna di Aznar e la Gran Bre­ta­gna di Blair. In tutti que­sti paesi si è assi­stito ad un ingente pro­cesso di redi­stri­bu­zione verso l’alto della ric­chezza attra­verso l’attacco al sala­rio diretto e dif­fe­rito, di asser­vi­mento dei mezzi di comu­ni­ca­zione e di restrin­gi­mento dei tra­di­zio­nali spazi demo­cra­tici. Ancora una volta, la fase getta una luce sini­stra sull’utilizzo di que­sti mar­gini di mano­vra da parte delle classi diri­genti; ma a tanto esse hanno mirato, e tanto hanno ottenuto.

Quella del «fal­li­mento del ber­lu­sco­ni­smo» pare dun­que una cate­go­ria autoas­so­lu­to­ria per chi, durante que­sto ven­ten­nio, al ber­lu­sco­ni­smo si è pre­sen­tato come alternativo.

Ma non è stato piut­to­sto il centro-sinistra, che in que­sti anni di Ber­lu­sconi è stato il con­tral­tare, a fal­lire? Attorno al Cava­liere si è infatti cemen­tato un blocco sociale fatto di inte­ressi nuovi, sorti dalla crisi dell’età dell’oro del capi­ta­li­smo, e di inte­ressi paras­si­tari ata­vici, ed a que­sto blocco sociale i governi ber­lu­sco­niani hanno dato rispo­ste con­crete: governi dura­turi, infatti, per­ché rispon­denti ad inte­ressi reali, per quanto retrivi. I governi di centro-sinistra invece, del poten­ziale blocco sociale che attorno alle varie coa­li­zioni sem­brava via via pren­der forma, hanno cre­duto di poter fare a meno: pren­de­vano voti da una parte, ma li met­te­vano a ser­vi­zio dell’altra.

Si ras­si­cu­ra­vano «l’Europa», i «mer­cati», gli «alleati», men­tre gli elet­tori e i mili­tanti della sini­stra vede­vano, una dopo l’altra, nau­fra­gare le con­qui­ste otte­nute a fatica nel corso della pre­ce­dente espe­rienza repubblicana.

Di qui, a ben vedere, la crisi reale del centro-sinistra ita­liano degli ultimi vent’anni: coa­li­zioni che hanno pen­sato di poter com­pen­sare con l’alchimia poli­tica le pro­prie defi­cienze di com­pren­sione del reale e di azione su di esso. Le spie­ga­zioni com­plot­ti­sti­che delle dif­fi­coltà espe­rite dalla sini­stra al governo, con al cen­tro le mene dei vari Ber­ti­notti, D’Alema, Mastella, rap­pre­sen­tano la spia di un atteg­gia­mento tutto poli­ti­ci­sta, appan­nag­gio non a caso di gruppi diri­genti ripie­gati su se stessi.

All’uscita di scena di Ber­lu­sconi può insomma non cor­ri­spon­dere una crisi del ber­lu­sco­ni­smo: è una cul­tura poli­tica desti­nata a carat­te­riz­zare anche il futuro del Paese, a meno di un radi­cale cam­bia­mento di rotta da parte dei suoi oppositori.

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