di Daniela Preziosi

 

Ho detto ’pro­fonda affi­nità’ con Ber­lu­sconi. Avre­ste pre­fe­rito ’diver­genze paral­lele’?», «a quelli che pre­fe­ri­scono la prima Repub­blica fac­ciamo ciao ciao con la manina». Mat­teo Renzi apre con 40 minuti di ritardo la dire­zione del Pd che deve discu­tere — o meglio votare — la pro­po­sta di legge elet­to­rale. La trat­ta­tiva con Alfano è andata per le lun­ghe, e la pazienza il segre­ta­rio Pd l’ha con­su­mata tutta là, a sacri­fi­care vir­gole di deci­sio­ni­smo ren­ziano sull’altare della sta­bi­lità del governo Letta.

Per que­sto quando arriva davanti ai dem va per le spicce reci­tando per l’ennesima volta i titoli delle riforme che vuole por­tare a casa, almeno incar­di­nate, entro il 25 mag­gio e cioè entro le euro­pee: titolo V della Costi­tu­zione, «supe­ra­mento» del senato. Ma il core busi­ness del discorso è la legge elet­to­rale, che Renzi bat­tezza «Ita­li­cum», con un’assonanza con il treno della strage che sarebbe stato più bello evi­tare. Pre­mio di mag­gio­ranza dal 18 per cento per chi rag­giunge almeno il 35 per cento, secondo turno se nes­suna coa­li­zione lo rag­giunge, liste bloc­cate ma corte, sbar­ra­mento al 5 in caso di coa­li­zioni e all’8 in caso di sin­goli par­titi. «I par­ti­tini hanno ucciso le coa­li­zioni», chi vince «non deve essere ricat­ta­bile. Que­sta legge sta­bi­li­sce la voca­zione mag­gio­ri­ta­ria, non esclude le alleanze ma le fina­lizza a vin­cere per gover­nare». È la for­mula vel­tro­niana che per anni ha armato oppo­ste tifo­se­rie, l’autore va al micro­fono per impar­tire una bene­di­zione, ma cono­sce i suoi e invoca l’unità del Pd, come poi faranno anche Dario Fran­ce­schini e Franco Marini.

Ma Renzi ha preso la rin­corsa ed asfalta tutto: rispe­di­sce al mit­tente tutte le cri­ti­che che ha sen­tito. No alle pre­fe­renze («non sono mai state pro­po­ste dal Pd», lo copre Fran­ce­schini), tanto il Pd si impe­gna di svol­gere le par­la­men­ta­rie; e al «vin­colo della rap­pre­sen­tanza di genere». Le pole­mi­che con­tro lui sono «stru­men­tali» e si fa beffe di chi le fa. L’incontro con il Cava­liere? «Esprimo la mia gra­ti­tu­dine a Ber­lu­sconi per aver accet­tato a discu­tere nella sede del Pd. E con chi dovevo par­lare? Con Dudù? Non ho resu­sci­tato io Ber­lu­sconi. Una volta che le riforme si pos­sono fare, l’idea che si dovrebbe rinun­ciare in nome dell’ostilità pre­giu­di­ziale è di una subal­ter­nità allu­ci­nante». «Se non abbiamo paura delle nostre idee non abbiamo paura di con­fron­tarci con gli altri». Sono le parole con cui l’attuale mino­ranza difen­deva il governo delle lar­ghe intese. Renzi chiama la conta ma avverte: «Non votiamo sulle pro­po­ste del segre­ta­rio, ma su quelle già votate da due milioni di per­sone». Non è pre­ci­sa­mente così — di Ita­li­cum l’elettore delle pri­ma­rie non ha mai sen­tito par­lare — ma è così che la mette giù il lea­der. E cioè dura. Rin­cara ancora: «La pro­po­sta o è così o salta tutto».

Sfi­lano gli inter­venti a favore, la stra­grande mag­gio­ranza. Il lea­der dell’opposizione Cuperlo prova a fare qual­che pre­messa di metodo: «Non c’è una mino­ranza che vuole boi­cot­tare, intral­ciare un pro­cesso rifor­ma­tore». Ma nel merito è no su tutto. «Alla luce della sen­tenza della Con­sulta la pro­po­sta è di dub­bia costi­tu­zio­na­lità», dice Cuperlo, «non garan­ti­sce né una una rap­pren­tanza, né il diritto di sce­gliere. Il dop­pio turno », che chie­deva la mino­ranza ber­sa­niana, «è un passo avanti ma resta che la soglia per il pre­mio debba essere alzata almeno al 40 per cento». La mino­ranza non ci sta allo stile pren­dere o lasciare, ripro­pone — senza con­vin­zione — la richie­sta di una con­sul­ta­zione interna : «Si dice che è tutto deciso con il voto delle pri­ma­rie dell’8 dicem­bre? Che altri­menti è come fare esplo­dere la mac­china e boi­cot­tare la sto­rica riforma isti­tu­zio­nale? Andate spe­diti e ci rive­diamo a una nuova dire­zione che ricon­voca le pri­ma­rie la pros­sima volta. Fun­ziona così un partito?».

La replica di Renzi è schietta: «Capi­sco se la pro­po­sta delle pre­fe­renze la facesse Fas­sina, che ha Roma ne ha prese 12mila. Ma non chi non è pas­sato per le par­la­men­ta­rie». E insi­ste senza ceri­mo­nie: «Spero che Cuperlo voti con­tro. Ma poi vale il prin­ci­pio che dopo, il Pd viag­gia com­patto. Voglio fare della dire­zione un luogo vero, non o così o pomì, un luogo in cui si discute dav­vero. Ma quando si è deciso, quella linea non impe­gna parte del Pd ma il Pd». È il cen­tra­li­smo demo­cra­tico in salsa Leo­polda. Cuperlo lascia la dire­zione indi­gnato. Il segre­ta­rio incassa 111 sì. La mino­ranza conta le sue 34 asten­sioni (ci sono anche i civa­tiani), ma i ber­sa­niani insor­gono. Fas­sina: «Attacco inac­cet­ta­bile a Cuperlo». Ma per D’Attorre non è finita qua: «Se l’accordo resta sulle liste bloc­cate, la mia pre­vi­sione è che il gruppo rischia di spac­carsi. Pre­sen­terò un emen­da­mento. Detto tra noi, sono d’accordo sol­tanto i ren­ziani a cer­chio stretto, che pen­sano di essere tutti tute­lati dalle liste bloc­cate, e un nucleo ristretto di franceschiniani».

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