Perugia: la Cittadella Giudiziaria (di Vanni Capoccia)
“CITTADELLA GIUDIZIARIA” A PERUGIA: FORMA, NOME E LUOGO SONO SOSTANZA
A Perugia stanno decidendo di creare dove si trovavano le ex carceri la “Cittadella giudiziaria”. Forse è una scelta definitiva ma sarebbe bene non lo fosse perché costruire una cittadella in una città e trasferirvi gli uffici giudiziari dovrebbe comportare una profonda riflessione di ordine giudiziario, urbanistico, sociale e di psicologia sociale.
Innanzitutto quando con il trasferimento di uffici e attività si decide di colmare un vuoto creato in una zona bisogna avere ben chiaro cosa si intenda fare dei vuoti che immancabilmente si verranno a creare da un’altra parte. Nella fattispecie con il trasferimento degli uffici giudiziari si dovrebbe già sapere cosa avverrà degli spazi che si libereranno e cosa questo comporterà nella vita e nell’economia di quello che è il centro del Centro della città. Una questione, appunto, centrale che avrebbe dovuto veder coinvolti la politica comunale e regionale, singoli cittadini, associazioni cittadine, commerciali e culturali.
Altra non secondaria riflessione da fare è quella sul nome scelto: “Cittadella giudiziaria”. Innanzitutto le “cittadelle” nelle città prima o poi sono destinate a fare una brutta fine, ne abbiamo un esempio anche a Perugia dove la cittadella in Colle Landone dei Baglioni, i criptosignori del Comune, è finita in macerie sotto la mole della Rocca paolina; inquietante simbolo del nuovo potere papale a sua volta distrutta per costruirvi sopra i simboli del nuovo potere risorgimentale: Banca d’Italia e Prefettura. Ma non è solo per questi riferimenti storici che nelle città le cittadelle non possono e non devono esserci è che nel nome e nei fatti sono dei corpi separati dal resto della città. Rappresentano forme di gentrificazione rispetto alle quali, non a caso, sociologi e architetti insistono nel bisogno che nelle città di oggi c’è di “cucire” le loro varie parti. Cucire, cioè connettere, far comunicare, rendersi palesi l’uno all’altro, fare in modo che le persone e i loro luoghi convivano e non semplicemente stiano nella stesso posto.
Per di più una “Cittadella giudiziaria” già nel nome è antitetica al ruolo che vi si deve svolgere: i luoghi della giustizia non solo devono essere ma apparire sin dal nome pubblici. Luoghi di tutte e tutti: leali, puliti, ariosi, sicuri che non a caso vengono chiamati “Palazzo della Giustizia” e non cittadella. Inoltre se è indispensabile che magistratura inquirente e giudicante non siano poteri separati perché ne andrebbe dell’indipendenza dei magistrati che indagano sottoponendoli alle pressioni e ricatti di poteri politici, economici, finanziari è altrettanto indispensabile che la sede dell’una sia distante dall’altra mentre a Perugia si troverebbero dirimpettai, praticamente comunicanti, e un cittadino indagato non può pensare che dopo averlo interrogato il giudice che lo ha fatto prenderà la pausa caffè con chi potrebbe giudicarlo.
Infine c’è quello che il posto evoca. Dove dovrebbe sorgere la cittadella della giustizia c’erano sia il carcere maschile che quello femminile. Il fatto che la “cittadella dei carcerati e delle carcerate” non ci sia più non vuol dire che nell’inconscio di una città non continui a esserci, basti pensare all’ex manicomio rimasto nelle mente dei perugini il luogo dei matti nonostante le scuole che vi sono e gli studenti che le frequentano. E questa non è una faccenda di lana caprina, perché come ha teorizzato con una felice intuizione lo storico di Perugia Raffaele Rossi riflettendo sulla sua città esiste una “psicologia della città”. Anche in presenza delle più nobili intenzioni costruire la “Cittadella della giustizia” nel luogo dei carcerati dà l’idea d’una giustizia giustiziera e non giusta che, mentre il giudice in toga siede sullo scranno in alto, pare ricordare cosa c’era lì prima e dove si potrebbe finire. Una condizione psicologica per cittadine e cittadini di non fiducia e di difficoltà e sudditanza rispetto alla Legge antitetica a quanto pensava Beccaria: “Perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi”.
Per concludere, per le questioni giudiziarie la forma è sostanza. Il significato sociale e psicologico del nome (cittadella) e del luogo (ex carceri) non sono problema di poco conto da derubricare con un’alzata di spalle, ma una questione essenziale dalla quale dipenderà il buon decidere su cosa sia giusto o ingiusto rispetto alla legge, e fa specie constatare che amministratori, magistrati e avvocati non abbiano sentito di dover riflettere e discutere su quest’aspetto nient’affatto secondario coinvolgendo in questo dibattito cittadini e cittadine.
Vanni Capoccia
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