Sì, ormai ne sono certo! La Pasqua, porta di transito da Vita a Vita, è Madre per eccellenza della “Universitas Spiritus et Corporis”. Se vorrete, qui di seguito mi proverò a fornirvene le motivazioni.

Dalla pia “Mater Gea”, così come fu definita e illustrata da Plinio il Vecchio, alle “Humanae Matres” dei tempi odierni tra crisi, famiglia e povertà diffuse. E’ in me profonda la convinzione che, nella vita sia corporale e sia spirituale, ogni donna sia madre, ciascuna a modo proprio e con le peculiari sue caratteristiche.

Che abbia partorito figli o meno, esiste comunque un filo, forse impercettibile ad uno sguardo distratto, che lega la sua capacità biologica di generare e ospitare un’altra vita con l’innata attitudine all’accoglienza dell’altro. Sono state create così, le donne: generate per procreare qualcosa che è bene, e per se stesse e per l’umanità intera.

Soffermiamoci, anche solo per un attimo, su un assunto del tutto naturale e ci renderemo conto che all’interno di esse pulsa un organo anatomico che non serve unilateralmente a loro medesime, neanche un po’, ma che è utile esclusivamente a qualcun altro in quanto gli dona la vita.

Ed è in quella sacra ampolla, nell’utero materno cioè, che Dio ha scelto di farsi Uomo. Scrive Sant’Agostino: “Nel grembo della Madre, l’unigenito Figlio di Dio si è degnato di unire a sé la natura umana per congiungersi, immacolato, alla Sua Chiesa immacolata”. E poi, ancora, che “Maria è l’arcana sorgente della vita, la porta del cielo, l’eco di un mondo diverso che tutti sogniamo, ma che sembra sfuggirci. Quanto più il mondo s’inaridisce, diventa cinico e soffre violenza, tanto più sente bisogno di tenerezza, cerca amore, ha nostalgia di una madre a cui tutto confidare, sicuro di essere ascoltato e compreso”.

Ci siamo da non molto lasciati alle spalle una grande porta, la porta di un anno di grazia: l’anno della Misericordia e, quindi, della Fede. Alle donne, come “madri dentro” e che serbano in sé un angolo protetto dove possono generare un’altra vita e dove concedono a qualcosa di “totalmente altro” di crescere e spiccare il volo fuori da sé, sia affidato il compito di contribuire ad amare sempre senza riserve poiché, comunque la si pensi, è vero che per continuare ad esistere abbiamo tutti un estremo bisogno di dare e ricevere amore.

Già, l’amore delle madri!

Ogni madre è, come detto, altro rispetto ai figli; pur tuttavia, in quei nove mesi di gestazione, quest’alterità non è del tutto avvertibile e compiutamente compiuta: la madre e l’embrione che vive nel suo grembo costituiscono quasi un solo organismo, pur essendo effettivamente due, ma in una condizione in cui l’uno dipende totalmente dall’altra, la quale se ne prende cura e ne garantisce la vitalità.

Forse è proprio questa la caratteristica principe della maternità: il prendersi cura in maniera amorevole e completamente altruista, condividendo in modo radicale tutto fino ad addirittura la propria corporeità.

Mi piace immaginare la figura della madre mentre nutre ed accudisce i propri figli; oppure quando, magari nascosta dietro ad una finestra, spia i loro primi passi nel cortile sotto casa all’inseguimento di una nidiata di pulcini in fuga od, anche, intenta ad insegnare loro come crescere nella preghiera e nelle opere.

Una missione irta di difficoltà e pertanto non immune da errori; eppure preziosa tanto da giustificare una certa indulgenza verso una retorica di maniera che, spesso, circonda la figura materna medesima: commuoversi al pensiero di una madre, con le lacrime agli occhi, è qualcosa di cui non ci si deve affatto vergognare.

Anzi, al contrario, poiché solo i bugiardi e i vigliacchi non piangono mai.

Mario Tiberi

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