di Leonardo Masella

Si avvicina il 7 novembre, l’anniversario della Rivoluzione d'Ottobre, anzi il suo centenario. Affinchè non ci siano solo le solite celebrazioni rituali auspico con questo articolo di fare alcune riflessioni strategiche per il movimento comunista e rivoluzionario che da quella rivoluzione ebbe origine. Non servono a niente quelle commemorazioni rituali che faranno finta di non vedere che l’Urss che da quella rivoluzione nacque non c’è più, che dopo soli 74 anni venne sciolta e fu cancellata persino dalla cartina geografica del mondo, o quelle che faranno ricondurre il crollo dell’89 alle solite categorie del tradimento, del rinnegamento, del revisionismo, che servono solo a consolarsi psicologicamente e a non riflettere sulle cause politiche e teoriche vere. Noi dobbiamo invece tentare di capire gli errori di fondo, ed anche le loro cause oggettive, indipendenti dal fattore umano, che portarono a quel crollo.
La Rivoluzione d’Ottobre fu la prima rivoluzione a guida marxista, comunista e proletaria, dopo la rivoluzione che dette vita alla Comune di Parigi, che fu il primissimo esperimento di rivoluzione marxista riuscita ma che mantenne il potere per pochissimo tempo. Anche la Rivoluzione d’Ottobre ha mantenuto il potere per pochissimo tempo (solo 74 anni che sono niente nella storia dell’umanità), tuttavia da essa si possono apprendere molte lezioni utili.

Ricordo sinteticamente alcuni elementi straordinariamente positivi e rivoluzionari della Rivoluzione d’Ottobre:
1) ruppe per la prima volta con la concezione sciovinista che i popoli devono farsi la guerra per gli interessi della propria patria (in realtà delle rispettive borghesie), sfilando la Russia dalla guerra mondiale, cosa prima impensabile;
2) istituì un nuovo potere popolare e una nuova democrazia alternativa a quella liberale, come i Soviet;
3) dette per la prima volta nella storia del mondo il diritto di voto alle donne.

Basterebbero queste tre cose per sottolineare il carattere universale, e non solo russo, della Rivoluzione d’Ottobre. Ma un’altra cosa che voglio sottolineare che ci può servire per capire lo sviluppo del mondo successivo ed anche dei tempi nostri è che la Rivoluzione d’Ottobre fu la prima rivoluzione (diversamente dalla Comune di Parigi) che ha spezzato la catena imperialista (nel suo “anello debole”, come lo chiamava Lenin). Aprì quindi la strada alle rivoluzioni antimperialiste del XX secolo guidate dal movimento operaio e comunista internazionale e alla situazione mondiale di oggi in cui i paesi un tempo soggiogati dal colonialismo e dall’imperialismo capitalistico stanno riprendendo dopo secoli il loro posto nella storia dell’umanità. Per essere più chiari, io penso cioè che la Rivoluzione d’Ottobre non ha portato al socialismo la Russia (socialismo che non si è ancora mai realizzato in nessuna parte del mondo), ma l’ha portata a sganciarsi dal giogo coloniale e imperialistico mondiale e ad avviare la liberazione dei popoli dal colonialismo imperialistico, condizione necessaria ma non sufficiente per la transizione al socialismo.

Infatti la Rivoluzione d’Ottobre non fu seguita, come nelle previsioni di Lenin e del movimento rivoluzionario dell’epoca, dalla rivoluzione negli altri paesi europei a capitalismo sviluppato. Su ciò bisognerebbe aprire una riflessione più di fondo, in particolare sulla innovazione apportata da Lenin dell’analisi dell’imperialismo (in cui si è trasformato il capitalismo nella sua “fase suprema”) e della rivoluzione in Russia come rottura dell’anello debole della catena imperialista, innovazione che rovesciò del tutto l’impostazione ideologica marxista dell’epoca (e probabilmente anche degli stessi Marx ed Engels) che considerava possibile la rivoluzione socialista solo nei punti alti dello sviluppo capitalistico e non nella Russia arretrata e semi-feudale.

Una riflessione su ciò ci potrebbe anche illuminare su cosa sono state le rivoluzioni del XX secolo, a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre, tutte avvenute in paesi semi-feudali soggiogati dall’imperialismo, e quindi più che “rivoluzioni socialiste” – secondo me – “rivoluzioni antimperialiste” guidate (non sempre) dal movimento operaio, socialista e comunista internazionale. Questo cambiamento di impostazione ci potrebbe fornire anche elementi utili a capire la situazione attuale del mondo, a capire che la Russia e la Cina di oggi per esempio non sono l’avanguardia del socialismo o del comunismo ma l’avanguardia della lotta della stragrande maggioranza dei popoli del mondo contro il colonialismo secolare prima europeo e poi nord-americano.

Quando la Rivoluzione d’Ottobre non fu seguita dalla rivoluzione negli altri paesi europei a capitalismo sviluppato, come nelle previsioni di Lenin e del movimento comunista di allora, i comunisti dell’epoca dovettero decidere se capitolare e abbandonare il potere o suicidarsi esportando militarmente la rivoluzione russa in tutta Europa, oppure se mantenere in qualche modo e con gli aggiustamenti necessari (anche nella teoria) il potere in Urss. Il “socialismo in un paese solo” fu quindi un ripiegamento, fu la conseguenza negativa della sconfitta della rivoluzione in Occidente a cui fu costretto il potere comunista e sovietico.

La non comprensione di ciò è l’errore più grave che hanno fatto e fanno le correnti trozkiste più dogmatiche. Tuttavia questa sconfitta e il conseguente isolamento e ripiegamento in cui fu costretta la rivoluzione condizionarono tutto il processo di costruzione del “socialismo in un solo paese”. E favorirono non solo i processi degenerativi che vi furono dopo Lenin, ma anche e soprattutto l’affermarsi di un “modello” economico (la statalizzazione integrale) e politico-istituzionale (partito unico e partito-Stato) che poi sostanzialmente si estese anche alle successive esperienze del cosiddetto “socialismo reale”, anche se è un errore generalizzare ciò che è successo alla fine degli anni ’80 con la formula superficiale e propagandistica di “fallimento del socialismo reale”, visto che anche Cuba, il Vietnam e la Cina sono paesi del “socialismo reale” ma – diversamente dall’Urss e dagli altri paesi del Patto di Varsavia (e dalla Yugoslavia e Albania che non ne facevano parte) – non sono crollati bensì hanno resistito ed oggi sono più vivi e vegeti che mai e bisognerebbe chiedersi perché.

I lunghi decenni di guerra (calda e fredda) che l’URSS ha dovuto reggere nei confronti del mondo capitalistico-imperialistico (accerchiamento, seconda guerra mondiale, minaccia nucleare, corsa agli armamenti) hanno indotto una centralizzazione autoritaria della vita economica e politica e una sorta di “militarizzazione” del pensiero che, una volta cristallizzatisi in un sistema burocratico di potere, sono sopravvissuti ben al di là delle circostanze che ne avevano favorito l’affermazione e hanno impedito l’affermazione anche sperimentale di una democrazia proletaria e socialista diversa e alternativa alla democrazia borghese e liberale. Assieme a ciò si è costruito un modello economico dimostratosi inadeguato a reggere la competizione col capitalismo imperialistico.

Un modello economico i cui assi portanti erano:
– la statalizzazione pressoché integrale della vita economica e sociale e la svalorizzazione totale del ruolo del mercato e del settore privato, errore tanto più grave in paesi che erano ancora alle prese con problemi primordiali di sviluppo a causa della loro arretratezza economica e produttiva;
– una pianificazione rigidamente centralizzata e gerarchica e un dirigismo aziendale che hanno sostanzialmente escluso i lavoratori dalla partecipazione alla gestione delle aziende e alla elaborazione democratica della pianificazione, favorendo fenomeni di corruzione e determinando una oggettiva separazione dei produttori dai mezzi di produzione (statalizzazione senza socializzazione);
– l’inesistenza di un sistema di incentivi (per i singoli e per le imprese), capace di premiare quantità, qualità e spirito di iniziativa individuale e collettiva del lavoro umano, nella sottovalutazione del fatto che il volontarismo stakanovista può realisticamente esistere solo in momenti particolarissmi e limitati nel tempo.

Queste problematiche sono in ultima istanza riconducibili alla grande questione del rapporto tra Stato e mercato, tra economia pubblica e privata, con una presenza del settore pubblico e dello Stato che sia sufficiente, per forza, qualità ed efficienza, a dirigere le scelte strategiche dell’economia pur in presenza di un vasto mercato e di una competizione economica fra imprese private, e non viceversa come avviene nei paesi del capitalismo imperialistico dove sono i monopoli privati a dirigere lo Stato. Si tratta cioè di riconoscere, in questo quadro, il ruolo di strumenti e meccanismi di mercato, sul piano interno e su quello internazionale, nel passaggio per una lunga fase di transizione a forme di socializzazione dei mezzi di produzione e di democrazia socialista (socializzazione e democrazia socialista mai ancora realizzate in nessun paese del mondo), oggi non prefigurabili.

La Cina, anche sulla base di un bilancio dell'esperienza sovietica, ha cambiato radicalmente per tempo modello economico con risultati oggi sotto gli occhi di tutti. La linea che si affermò nel Partito Comunista Cinese alla fine degli anni ‘70, dopo la morte di Mao e la sconfitta delle posizioni marxiste-leniniste dogmatiche della "banda dei quattro" e del "soggettivismo" e del "volontarismo" economico della Rivoluzione Culturale, sta proprio nella ripresa dei temi sollevati da Lenin nella NEP e anche nella loro trasformazione da una fase tattica e breve di convivenza fra Stato e mercato, in un cambiamento strategico di lunga durata necessario anche per una nuova concezione di socialismo molto diversa dalla statalizzazione dei mezzi di produzione. Peraltro, il socialismo anche nelle concezioni di Marx non è mai stato inteso come "statalizzazione" ma semmai come "socializzazione" dei mezzi di produzione, socializzazione mai esistita finora nè in Urss nè in altri altri paesi a potere comunista e rivoluzionario.

L’altro limite fondamentale del “socialismo reale” che, mixato assieme alla stagnazione economica, ha portato al crollo di alcuni paesi del socialismo reale fra cui l’Urss, risiede – come dicevo - in un modello politico-istituzionale autoritario che ha frenato lo sviluppo di una democrazia socialista e proletaria, nella cornice di uno Stato di diritto, con solide radici nella società. Questo spiega, tra l’altro, la facilità con cui (venuto meno il protettorato politico-militare dell’URSS) i sistemi politici dell’Est europeo sono crollati.

La mancanza di un’autentica democrazia popolare, a partire dalla abolizione dei Soviet dopo la morte di Lenin, il venir meno di una dialettica democratica nel partito e nello Stato, l’identificazione del partito con l’apparato statale, il distacco tra potere e masse lavoratrici e popolari, il monolitismo verticistico e burocratico del potere politico, hanno prodotto in molti casi la stagnazione e la sclerosi del pensiero teorico, trasformando il marxismo in ideologia di Stato, sempre meno attrattiva agli occhi delle masse, in un faro spirituale e quasi religioso invece che in una analisi scientifica della realtà e in una bussola per l’azione. E hanno privato la società e il partito stesso di quegli strumenti critici auto-correttivi capaci di far capire per tempo le modificazioni della realtà e le riforme che si rendevano necessarie per rafforzare e rilanciare le basi della rivoluzione e del socialismo.

La democrazia socialista è dunque l’altro tema, assieme alla socializzazione dei mezzi di produzione (due tematiche intrecciate e dipendenti l’una dall’altra), su cui riflettere per raggiungere forme anche inedite di democrazia popolare e socialista, per sviluppare un sistema socialista in grado di allargare (e non restringere) le libertà individuali e collettive senza cadere nella democrazia borghese e liberale, falsa e in piena crisi.
 

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