Lavorare sta diventando un lusso che non tutti riescono a permettersi. Se si considera, poi, che esiste un ragguardevole numero di persone che hanno un lavoro non adeguatamente retribuito, la condizione occupazionale si aggrava ancor di più.

Il lavoro, quando c’è, dovrebbe garantire pari dignità e uguaglianza offrendo la libertà di una piena realizzazione personale. Quando c’è! Il nodo problematico è che non c’è e quel poco che ne è rimasto non soddisfa appieno le legittime aspettative della popolazione, soprattutto e specificatamente, di quella che ha già impegnato venti anni della sua vita applicata agli studi, dalle classi elementari fino ai banchi universitari.

La prima definizione che si legge alla voce “salario” nel dizionario Treccani, così recita: “Nel linguaggio giuridico-economico è il reddito dei lavoratori dipendenti, in particolare degli operai (quello degli impiegati è detto invece stipendio), che remunera la quantità e la qualità del lavoro prestato e che, secondo il dettato costituzionale, deve nello stesso tempo assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Esistenza libera e dignitosa? Ma vogliamo davvero scherzare! Le politiche del lavoro, almeno negli ultimi due decenni, sono state così inadeguate e fallimentari che tutto hanno perseguito fuorché il garantire al popolo italiano una vita libera e dignitosa.

Recentemente, alla ILVA di Genova, anche Francesco, Papa e Vescovo di Roma, ha molto insistito sulla dignità del lavoratore con parole affilate come l’acciaio: “Senza lavoro per tutti non ci sarà mai dignità per tutti”. Una frase secca, e di conseguenza un concetto altrettanto secco, ripetuto ben sedici volte, come fosse un mantra, in modo da fissarlo a fuoco nella coscienza anche di chi non vuol sentire. Il riferimento all’attuale ceto politico governativo, che di coscienza ne ha davvero ben poca, mi pare chiaro e incontrovertibile.

Degli stessi giorni è anche l’uscita del rapporto ISTAT per il 2017 e, per l’anno in corso, i dati numerici e statistici sono ancor più peggiori rispetto agli anni precedenti. Ma l’elemento che maggiormente colpisce risiede nel fatto che viene ampiamente evidenziata, in maniera analitica e dettagliata, la scomparsa di una radicata fiducia dei prestatori d’opera nella propria identità personale e sociale.

La conclusione mi sembra ovvia: il binomio lavoro e libertà diviene sempre più fumoso, distante, probabilmente irrealizzabile allo stato dei fatti. O lavoro o libertà. O libertà senza lavoro, o lavoro senza libertà. E’ aberrante, ma la china appare proprio questa.

Si è ancora in tempo per poter intervenire? Direi di sì, a patto che si debba necessariamente e repentinamente cambiare marcia qualora non si voglia precipitare nel baratro del non ritorno.

Mario Tiberi 

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