di Maria Pellegrini

Il vulcano Etna nella notte di Natale è tornato a far parlare di sé. Alla sua attività eruttiva sono seguite scosse telluriche che hanno gettato nello sconforto e nel terrore gli abitanti che vivono ai piedi di questa nera montagna di lava che si trasforma in pochi minuti in una creatura viva che sprigiona una forza travolgente. «L’Etna spaventoso ed incantevole», lo definì Federico De Roberto autore de I viceré, romanzo scritto nel 1834. Questo ennesimo episodio eruttivo ha evocato in molti di noi la fama che nell’antichità ebbe questo vulcano e l’interesse che suscitò in scienziati, poeti, geografi, storici.

Per la mitologia greco-romana nei vulcani erano sepolti i Giganti che avevano tentato di assalire l’Olimpo. Generati dalla madre Terra, come in precedenza avevano fatto i loro fratelli i Titani (che Zeus in parte uccise e in parte confinò nel Tartaro), essi dettero l’assalto al cielo degli dei, ma furono sconfitti: ognuno fu imprigionato ancora vivo sotto un masso scagliatogli da Zeus o da qualche altro dio dell’Olimpo, o sepolto sotto un vulcano o isole vulcaniche: Encelado nell’Etna. Certo è che i crateri infuocati dei vulcani mediterranei dovevano apparire ai naviganti antichi come altrettanti occhi fiammeggianti di esseri giganteschi identificati, in epoca greco-romana, con i Ciclopi.

I filosofi greci, a partire da Talete di Mileto nel VI secolo a.C., cercarono di superare l’approccio mitico e sovrannaturale e iniziarono ad analizzare i fenomeni geologici da un punto di vista naturalistico, basandosi oltre che su considerazioni speculative anche sulle relazioni di causa-effetto. Non vogliamo qui intraprendere un discorso scientifico, ma ricordare questo vulcano attraverso la voce di alcuni scrittori e poeti che ne furono ispirati.

L'Etna era già fonte di ispirazione poetica già intorno al 470 a.C., quando il greco Pindaro dedicò la prima Ode Pitica alla fondazione ufficiale della nuova città di Etna sotto Diomede figlio di Ierone.

«L’Etna nevoso, colonna del cielo

d’acuto gelo perenne nutrice;

mugghiano dai suoi recessi

fonti purissime d’orrido fuoco,

fiumi nel giorno riservano

corrente fulva di fumo

e nella notte rotola

rocce portando alla discesa

profonda del mare, con fragore».

 

Callimaco, il poeta più rappresentativo dell’età ellenistica, Nell’Inno ad Artemide, dea della caccia, immaginò che le frecce e l’arco furono per lei fabbricate dai Ciclopi che secondo il mito abitavano nell’interno del vulcano Etna:

 

«il rimbombo dei loro martelli e il soffio sui mantici

dall’Etna si propagava per tutta la Trinacria

e ne risonava la vicina Italia».

 

Lucrezio (98-55 a.C.), massimo poeta latino, affronta anche il tema dei fenomeni vulcanici dei quali mira a fornire una spiegazione razionale. Nella descrizione dell’Etna egli probabilmente ha presente l’eruzione che distrusse Catania nel 122 a. C.:

 

«Ora qual sia la ragione per cui attraverso le fauci

del monte Etna spirino talvolta fuochi così turbinosi,

io chiarirò. Esplosa con immoderata strage,

la tempesta di fiamme, imperversando pei campi dei Siculi,

fece volgere a sé gli sguardi delle genti vicine,

quando, vedendo scintillare fumi di tutti gli spazi del cielo,

sentirono colmarsi i cuori d’angoscioso terrore,

chiedendosi quali spaventosi eventi preparasse la natura».

                                                            (La natura delle cose, VI, 639-646)

 

Ricordando poi la teoria di «quanti sono dell’idea che tutto possa prodursi dal fuoco e dalla terra, dall’aria e dall’acqua» affermò che:

 

«Fra i primi di tutti costoro v’è Empedocle di Agrigento,

generato sul suolo dell’isola dal triplice lido,

intorno alla quale fluttuando nei vasti anfratti il mare Ionio

spruzza amara salsedine dalle glauche onde,

e per l’esiguo stretto le rapide acque dividono

con i flutti le sponde della terra Eolia dalle sue rive.

Qui è la vorace Cariddi e qui l’Etna rombante

minaccia di addensare di nuovo l’ira delle fiamme,

affinché la sua violenza torni a eruttare i fuochi

sprigionati dalle fauci, e scagli in cielo folgori fiammeggianti.

Questa regione appare in molti modi grande e mirabile

alle genti umane, ed è fama che sia degna d’essere veduta

ricca qual è di beni, munita di grande forza d’uomini».

(La natura delle cose, I, 714-728)

Vittima illustre del fascino emanato da questo vulcano fu Empedocle, filosofo greco vissuto nel V secolo a. C. Caduto in disgrazia presso i suoi concittadini, morì in esilio nel Peloponneso ma, secondo alcuni, scelse di gettarsi nel cratere dell’Etna, suicida tra gli elementi che erano stati oggetto dei suoi studi: terra, acqua, aria, fuoco. Il vulcano restituì, secondo la leggenda, soltanto un sandalo rivelando così a tutti l’estremo gesto compiuto dal filosofo.

Mito e storia si confondono anche in Diodoro Siculo, storico greco del I secolo a. C., nato ad Agira, in Sicilia, autore di una monumentale Biblioteca storica, in minima parte pervenutaci. La fertilità della terra siciliana è fonte di ispirazione per una delle favole più belle tramandataci dall’antichità: il rapimento di Persefone ad opera di Ades, dio degli inferi.

Dopo il rapimento di Persefone, la madre Demetra

«poiché non riusciva a trovare la figlia, accese fiaccole dai crateri dell'Etna, si recò in molti luoghi della terra abitata e beneficò gli uomini che le offrissero la migliore ospitalità donando loro in cambio il frutto del grano».

Dal cuore del vulcano dunque Demetra accende le sue torce e illumina il suo disperato cammino alla ricerca della figlia: il fuoco, simbolo di forza e di potenza, è custodito nel ventre dell’Etna.

Anche Virgilio (70-19 a.C.) nell’Eneide descrive l'eruzione del vulcano, terribile nel suo impeto. Quando Enea e i compagni, scampati alla tempesta, giungono, stanchi e provati, alle coste ioniche, li sorprende e atterrisce una spaventosa eruzione dell’Etna, che scaglia in cielo massi e lapilli mentre le stelle scompaiono e l’oscurità si diffonde. Virgilio spiega che è Encelado, che urla e scuote la terra nel tentativo di liberarsi, mentre il suo corpo gigantesco brucia. Il gigante ribellatosi a Zeus fu incatenato per punizione sotto l’isola di Trinacria, nome dato alla Sicilia per la sua conformazione “a tre punte”. Ancora una volta il mito spiega ciò che agli occhi degli uomini appare soprannaturale e sconvolge la loro mente.

«Il porto, al riparo dei venti, è immoto e vasto,

ma accanto l’Etna tuona di orrende rovine,

e talvolta vomita nel cielo una nera nube,

fumante d’un turbine di pece e di ardenti faville,

e solleva globi di fiamme e lambisce le stelle;

talvolta scaglia eruttando rocce e divelte

viscere del monte, e agglomera con un mugghio nell’aria

pietre liquefatte, e ribolle dall’infimo fondo.

Si dice che il corpo di Encelado semibruciato dal fulmine

sia oppresso da questa mole, e il gigantesco Etna

sovrapposto spiri fuoco da squarciati camini;

e tutte le volte che muta il lato stanco, tremi

tutta la Trinacria con un rombo e veli il cielo di fumo.

Nella notte, protetti dai boschi, sopportiamo tremendi

spettacoli, e non vediamo che causa produca il fragore.

Infatti non v’erano fuochi di astri, o aria lucente

di etere sidereo, ma nubi nel cielo oscuro.

E la notte tempestosa chiudeva la luna in un nembo».

(Eneide, III, 570-587)

Dal punto di vista letterario i Romani raccolgono l’eredità greca, nell’Aetna, poema didattico in 646 esametri di autore ignoto, attribuito a Virgilio, scritto probabilmente tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del I secolo d.C. L’argomento è la natura del vulcano siciliano e delle sue manifestazioni eruttive. Nell’Introduzione c’è una condanna dei falsi miti secondo i quali l’Etna è la sede dell’officina del dio Vulcano/Efesto, il dio fabbro o delle fornaci dei Ciclopi che vi forgiavano le folgori di Giove/Zeus, o dello sconfitto gigante Encelado. Quello dell’Etna è uno spettacolo mirabile degno di essere visitato e preferibile ai tanti luoghi verso cui si dirigevano in frotte i viaggiatori dell’antichità. Le stesse opere d’arte sono inferiori alla vista del vulcano «che vomita fuoco»:

«Guarda la grande opera creata dalla natura artefice, non vedrai

nessuno spettacolo tanto grande tra le cose umane».

(Etna, vv. 600-601)

Il poemetto termina con una leggenda narrata anche in altre fonti, la storia di due “fratelli pii”: Anapia e Anfinomo sono sorpresi nei loro campi insieme ai vecchi genitori da un’eruzione dell’Etna. L’unica speranza è una fuga veloce, ma gli anziani genitori non possono farcela. I fratelli allora se li caricano sulle spalle, come già Enea con il vecchio padre, anche se quel peso probabilmente li perderà. Quando sono raggiunti dalla lava, questa di fronte a un così un fulgido esempio di pietà filiale si divide miracolosamente in due per poi ricongiungersi, lasciando i fratelli e i genitori incolumi:

«Le fiamme si vergognarono di toccare i pii giovani

e, dovunque essi portano il passo, indietreggiano.

Felice quel giorno, benedetta è quella terra!

A destra dominano, a sinistra fervono crudeli incendi;

per mille fuochi di traverso l’uno e l’altro fratello va trionfante,

sicuro l’uno e l’altro sotto il pietoso carico

e intorno ai due si calma l’avido fuoco

Infine escono incolumi e portano seco le loro divinità

sane e salve. Li esaltano i carmi dei poeti».

(Etna, vv.634-642)

Lo storico Appiano narra che il futuro imperatore romano Ottaviano, nel 36 a. C. ebbe la ventura di assistere da lontano alle esplosioni dell’Etna, ma le sue truppe ne furono talmente impressionate da indurlo a una pronta fuga:

«Etna tuonava e mugghiava e un torrente di fuoco sembrava riversarsi sulle truppe».

Anche Caligola, secondo il racconto di Svetonio:

«Durante un viaggio in Sicilia dopo aver preso in giro le superstizioni di molti luoghi, fuggì da Messina, in piena notte, terrorizzato dal fumo e dai boati dell’Etna».

Strabone (64- a.C-21 d.C.), geografo e storico greco, nella sua opera, Geografia, descrive dettagliatamente i prodotti, le fasi eruttive e le differenti morfologie dell’Etna che «domina soprattutto la costa verso Catania, ma anche quella verso il mar Tirreno e le isole Lipari». Già nel primo libro della sua opera (I, 3, 10), nel quadro della trattazione generale sulle modificazioni geomorfologiche prodotte da fenomeni vulcanici e sismici, delinea una duplice possibilità in rapporto alle formazioni insulari. Facendo riferimento in modo specifico alla Sicilia, egli ne parla come di un frammento di roccia incandescente eruttata dall’Etna, riferendo in modo ambiguo di una sua possibile origine insulare. A tale possibilità egli contrappone l’alternativa di una possibile origine continentale dell’isola come di un frammento staccatosi dall’Italia.

In un altro passo leggiamo:

«Coloro che sono recentemente saliti sull’Etna mi hanno raccontato di aver trovato sulla sommità una superficie piana ed uniforme, della circonferenza di circa 20 stadi, con intorno un bordo di cenere alto come un muro, cosicché bisogna saltarlo se si vuole entrare nella pianura. Nel mezzo essi videro un’altura dal colore cinereo come la superficie della pianura e, al di sopra dell’altura, una nube perpendicolare che saliva diritta per un’altezza di 200 piedi, immobile (era infatti un giorno primo di vento) e rassomigliava a fumo; due uomini avevano tentato di procedere nella pianura, ma, poiché la sabbia su cui camminavano diventava sempre più infuocata e profonda, tornarono indietro, senza poter dire a quelli che avevano osservato da più lontano niente di più di quanto essi avessero già visto».

(Geografia, VI 2, 8)

Seneca (c.5 a.C.- 66 d.C.), filosofo e letterato latino, nelle Questioni Naturali mise in relazione i vulcani attivi con focolai magmatici profondi; contemporaneamente sostenne che i vulcani emettono masse ignee più che soffi infuocati. All’epoca di questo autore i vulcani campani erano ancora quiescenti e quindi l’attenzione si accentrò soprattutto sull’Etna, che fu costantemente visitato, infatti sulla sua sommità si trovano resti di edifici romani.

Nelle Lettere a Lucilio, l’amico che scriverà un’opera sull’Etna, Seneca fa a lui una richiesta:

«[…] Oserò chiederti di salire anche sull'Etna per farmi piacere. Secondo alcuni questo vulcano si sta consumando e abbassando a poco a poco; si deduce dal fatto che un tempo i naviganti lo scorgevano più da lontano. Questo fenomeno può succedere non perché diminuisca l’altezza del monte, ma perché il fuoco è più debole ed esce con minore violenza e in minore quantità e per lo stesso motivo anche il fumo diventa più tenue durante il giorno. […] Mi scriverai a che distanza dal cratere si trova la neve; pur essendo vicina al fuoco, è tanto riparata che non si scioglie nemmeno in estate. Non devi, però addebitarmi la fatica della scalata: anche se nessuno te lo avesse chiesto, l’avresti fatto per soddisfare la tua forte curiosità. Non c’è niente che possa distoglierti dal descrivere l’Etna nel tuo poema e dal toccare questo soggetto abituale per tutti i poeti. Il fatto che Virgilio ne avesse parlato diffusamente non impedì a Ovidio di trattare l'argomento; e Virgilio e Ovidio insieme non distolsero neppure Cornelio Severo dall’affrontarlo ugualmente. […]. O io non ti conosco o l’Etna ti fa venire l'acquolina in bocca; e già desideri scrivere qualcosa di grande e allo stesso livello delle opere precedenti».

(Lettere, LXXIX)

Mezzo secolo dopo, in uno dei viaggi presso le Provincie romane Adriano (imperatore dal 117-al 138) visitò anche la Sicilia, come dimostra una moneta romana, un sesterzio sul cui rovescio è scritto Restitutor Siciliae, nel quale si vede Adriano che porge la mano, in atto di alzarla, alla rappresentazione della Sicilia inginocchiata. Alcuni studiosi considerano tale scritta un riconoscimento della munificenza del principe verso le città dell’isola, consistente in interventi edilizi che in realtà, allo stato attuale dei dati archeologici ed epigrafici, non sono semplici da identificare. Trovandosi in visita in Sicilia volle salire sull’Etna per osservare da vicino sia il vulcano, sia principalmente per assistere di persona al sorgere del Sole, il quale fatto prevedeva che avrebbe trascorso la notte in cima o quasi al vulcano; la Storia Augusta nella Vita di Adriano riporta questa escursione in cima all’Etna, tornando via mare dalla Grecia:

«Navigò poi alla volta della Sicilia e salì sull’Etna per vedere l’alba, poiché si dice che di lassù la luce del Sole nascente abbia i colori dell’arcobaleno. Tornò infine a Roma».

(Vita di Adriano XIII, 3)

Nel luogo dell’Etna dove pernottò Adriano per assistere allo spettacolo dell’alba alla quota di 2920 metri, esistevano fino al XIX secolo dei ruderi antichi, poi scomparsi sotto l’imperversare delle colate laviche, ruderi noti come “Torre del Filosofo” con un riferimento, secondo alcuni, al filosofo agrigentino Empedocle, che là avrebbe trovato la morte.

L’Etnea continuò a interessare scrittori e poeti del Medioevo e Rinascimento, e scrittori italiani e stranieri dal settecento a tutt’oggi.

 

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