“Mala Tempora Currunt”! Lo affermiamo e lo ripetiamo ad ogni piè sospinto, ma poco o punto ci indaffariamo per superarli o, quantomeno, per lenirli.

Più che le obiettive avversità, incide invece nella perdurante crisi l’incapacità sedentaria, parolaia e inconcludente di un ceto politico a tutti i livelli distratto e superficiale e che, nessuno me ne voglia, mi viene spontaneo definire alla stregua di un impianto di ricircolo di aria pluricondizionata da obsoleti schematismi triti e ritriti, fritti e rifritti. Il clima diviene, così, sempre più irrespirabile in quanto non è dato di intravedere la volontà, decisa e irreversibile, di spalancare le finestre alla fresca brezza di un ponentino realmente rinnovatore, rigenerante e travolgente quanto di più marcio vi è nella partitocrazia dominante la quale, ostinatamente, tende alla sua sola autoriproduzione pur di non perdere i privilegi dei quali si è incoronata.

Il “governo del fare”, tanto sbandierato quanto declassato, imprigiona e condanna il popolo italiano alla stagnazione se non alla regressione; le opposizioni, divise e ciarlanti tranne la esemplare eccezione dei cinque stelle, non offrono la speranza di una valida e saggia alternativa in cui poter credere e a cui potersi affidare per una svolta democratica concretamente percorribile.

Quando la “Politica” abdica ai suoi doveri di funzione pubblica inquadrabili, in una cornice estremamente sinottica, nell’analizzare le criticità della realtà circostante, elaborare strategie di superamento delle stesse e, infine, decidere sui correttivi e sugli interventi da gettare nella mischia, quando ciò avviene le parole restano parole e le sporadiche azioni concrete non hanno possibilità alcuna di incidere in un contesto di auspicabile sostanzioso ed ineludibile cambiamento.

Ecco dunque, quando tutto sembra crollarci addosso, riaffacciarsi la inveterata e intemerata ancora di salvezza: il dispiegarsi del dovere civile e morale volto alla riaffermazione dei princìpi della solidarietà e della sussidiarietà. Beninteso, non rivolte a chi non ne ha bisogno e diritto e, cioè, ai tronfi di ricchezze materiali, ai potenti, agli intonsi di immisericordiosa presunzione, quanto invece indirizzate a risollevare le magre e grame sorti degli indigenti, dei diseredati, degli ultimi.

Mi corre l’obbligo, a questo punto, di provare a precisare il significato della parola “solidarietà”, a volte abusata e a volte incompresa e indecifrabile.

E’ bene, innanzitutto, riflettere sulla sopravvivenza della solidarietà e, ancor prima, è bene che si torni a far uso di questo vocabolo caduto parzialmente in disuso nel dibattito pubblico e, peggio su peggio, trattato alla pari di un retaggio ingombrante di cui liberarsi in nome di una presunta modernità.

In una società che troppo spesso sembra dimenticarsi dell’essenziale, intenta com’è ad inseguire un “eterno presente”, è giusto chiedersi se la solidarietà esista ancora e come la si possa rianimare e ripensare nelle forme nuove che il cambiamento reclama. Bisogna essere chiari: non si deve riscoprire la solidarietà solo perché si è immersi in una crisi economica devastante e lungi dall’essere superata; essa viene prima, e verrà poi, allorquando la stessa crisi sarà finalmente alle nostre spalle.

La solidarietà principia non dopo che l’egoismo umano ha prodotto i suoi frutti di disuguaglianza, ma li deve prevenire ed anticipare. L’uomo che provvede all’altro uomo è alla radice di una civiltà che si propone di fondarsi sulla giustizia sociale.

I modelli rivolti a contrastare il rischio dell’indigenza e a fornire strumenti di elevazione culturale e sociale, tra i quali l’istruzione pubblica e la previdenza e la sanità, rappresentano nell’epoca contemporanea le più grandi conquiste dei movimenti di massa di ispirazione cristiana o socialista.

La realtà, però, è in continua evoluzione e le necessarie modifiche al sistema dello “Stato Sociale” sono parte integrante di un interesse concreto dell’economia e della politica per realizzare meglio il bene comune. Non si tratta di ridurre diritti, ma di pervenire ad un equilibrio giusto e durevole.

Deve, così, essere rivolto lo sguardo a un sistema che non premi l’egoismo di classe o di corporazione, ma che punti, invece e decisamente, alla cura collettiva affidata ai pubblici poteri: incentivare la dedizione alla tutela dei deboli, aiutare i giovani a crescere, consegnare ad ogni persona la dignità che viene dal lavoro retribuito e dalla disponibilità di reddito per l’autosufficienza.

Questioni enormi che hanno bisogno di pazienza e prudenza, ma anche e soprattutto di coraggio e di decisioni non ulteriormente rinviabili poiché il lavoro è il fondamento della effettività del diritto.

Il lavoro che fonda la Repubblica è esso stesso la condizione per poter adempiere ai doveri suggeriti dal sentimento della solidarietà. Senza lavoro, senza ricchezza prodotta sì con fatica e pur però con la ritrovata gioia della dignità, non vi è “pane” né per il residente, né per lo straniero, né per i giovani, né per gli anziani.

Si deve, in altri termini, riscoprire la centralità dell’impegno per la rappresentanza partecipata, sia politica che sociale. Rappresentare partecipando significa scegliere, correre il rischio di un consenso che non sia mera accondiscendenza e bensì visione, proposta e disegno: ecco i compiti che attendono tutti coloro che hanno lealmente a cuore i destini futuri del popolo italiano.

Sanità, previdenza, educazione, ricerca e sostegno ai deboli non sono opzioni rinunciabili e divengono alternative reali solo se la nostra nazione sarà capace di rimettersi in marcia. Il monito testé descritto ci viene non soltanto dai Padri Costituenti, ma è ancor più antico. Per molti, e tra questi chi Vi scrive, risiede nel cuore pulsante rappresentato dagli insegnamenti derivanti dal pensiero sociale cristiano e dai suoi migliori interpreti e divulgatori.

Mario Tiberi

 

 

 

 

 

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