di Alfonso Gianni - Il Manifesto - 12.09.2018.

Il sequestro delle risorse finanziarie della Lega, fino a 49milioni di euro, merita forse qualche considerazione ulteriore, fatto salvo il diritto degli avvocati difensori di quest’ultima di presentare un ennesimo ricorso e degli esiti che questo potrà avere. Quando la notizia è dilagata si sono sentite, persino negli ambiti della sinistra radicale, dubbi o critiche nei confronti dell’operato della Magistratura che avrebbe ex abrupto inibito l’azione di un partito. Mentre su questo nel M5stelle si riapre la contesa fra Di Maio e Di Battista.

Bene ha fatto Michele Prospero a ricordare che gli anni ’90 differiscono in modo sostanziale dagli attuali. Allora Tangentopoli intervenne al culmine di una crisi matura del sistema dei partiti, anche se ne accelerò obiettivamente l’esito disastroso. Che non ci fosse neppure allora una “via giudiziaria al socialismo”, si incaricò di dimostrarlo l’avvento del ventennio berlusconiano. Ora la decisione del tribunale si colloca in una situazione opposta, con un governo, e con la Lega al suo interno, sulla cresta dell’onda dei sondaggi e persino del plauso di settori popolari purtroppo non trascurabili.

Proprio per questo il vox populi, vox dei, immediatamente contrapposto da Salvini alla azione della Magistratura, appare peggio che inquietante. La strada spianata da Berlusconi viene portata agli estremi traguardi, ovvero il consenso elettorale diventa fonte di legittimazione di qualunque abuso contro la legalità costituzionale. La sacralità della e dalla proprietà viene traslata sul corpo del capo del partito. Non sfugge il nesso di causalità e finalità di queste sortite con le proposte nuovamente avanzate di una modifica in senso presidenzialista con l’elezione diretta del capo dello Stato e con l’inutilità del parlamento vagheggiata da Casaleggio jr..

Se vogliamo evitare che tutto ciò getti radici e prenda corpo una “fascistizzazione del senso comune” bisogna opporsi ad ogni singolo passo di questa regressione. Tale compito non può che essere della politica. Il guaio è che la forza di questo governo è principalmente fondata dall’assenza di una opposizione di cui ha finora goduto in modo sfacciato. Non la incontra sul lato destro, per l’ovvia ragione che il principale partito di quello schieramento è il protagonista più dinamico del governo stesso. Non la trova alla sua sinistra, perché un Pd, tra la paralisi e la confusione, riesce al massimo a rimproverare al governo la mancata attuazione di parti del famoso contratto, comprese le peggiori, dando origine a dibattiti parlamentari e a dichiarazioni paradossali. Mentre Leu è tutt’ora alla ricerca di una propria identità e funzione, con il rischio di deludere un già striminzito elettorato.

Eppure, malgrado questa condizione che solo veri e propri regimi hanno potuto godere, emergono crepe non trascurabili fra Lega e M5stelle. Lo si è visto ultimamente nella tragica vicenda del crollo del ponte Morandi, lo si riscontra nella faticosissima gestazione di una legge finanziaria, emerge sulle sanzioni a Orban (con i 5stelle non ancora accasati nel parlamento europeo), poiché la divisione dei compiti fra economia e sicurezza non tiene, sia per la bulimia politica di Salvini che per l’intreccio obiettivo dei temi. Mentre nella vicenda Ilva è emersa pur a tentoni una mediazione da parte di Di Maio, ben diversa da quella del suo predecessore nel ruolo Carlo Calenda, ma anche contropelo rispetto al proprio elettorato su elementi importanti, peraltro ancora da chiarire, come quello delle conseguenze ambientali.

Tutte queste contraddizioni poi si ricompongono rapidamente quando ci si infila sotto l’ombrello decisionale della Ue. L’antitesi fra flat tax e reddito di cittadinanza viene sensibilmente ammortizzata, se le aliquote fiscali da due diventano tre; se il reddito di cittadinanza diventa quello di inclusione di renziana matrice un po’ più esteso e rinforzato. La ridiscesa dello spread, dopo avere veleggiato a quota 300, è indicativa, anche se l’aumento del rendimento dei nostri titoli di stato continua a rivelare la scarsa fiducia nella nostra economia. L’intervista, ben più paludata del solito, che Salvini ha rilasciato al Sole24Ore pochi giorni fa, in cui era ben in evidenza il “rispetto dei vincoli Ue”, è stata subito apprezzata da Confindustria ben felice di riaprire il dialogo. La mossa del ricorso alla piazza era un bluff, non essendo nelle sue corde.

Tensioni dentro coalizioni governative non sono certo una novità, in passato ne hanno costituito una valvola di sfogo, quindi di tenuta, ma assumono una rilevanza maggiore e più corrosiva in un’intesa bipartitica. Una opposizione di sinistra, se ci fosse, se si costruisse, come non sarebbe impossibile fare (e a questo serve anche la proposta di una manifestazione nazionale antirazzista lanciata dal manifesto) dovrebbe approfittare di queste crepe per dilatarle irrimediabilmente. Non si può delegare al potere giudiziario, che comunque fa il suo dovere. Sarebbe una buona quanto elementare tattica, che però avrebbe bisogno di una strategia per avere un senso compiuto. Ovvero la capacità di non vivere di riflesso, denunciando le malefatte altrui, ma definendo un programma alternativo a quello del governo, da agire subito pur nelle difficili condizioni date. Un processo costituente che disarticola quello costituito, impedendogli ogni saldatura.

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