di PAOLO BRUSORIO - La Stampa

«Sono stato sconfitto. Direi totalmente sconfitto. Ma non mi arrendo». Le parole di Paolo Sollier hanno il peso degli anni, sabato saranno settanta. Sollier ha fatto il centravanti del Perugia dal ’74 al ’76, segnava poco, ma correva come un matto («facevo casino») e salutava dal centro del campo con il pugno chiuso. Compagno centravanti. Ora immaginatevi quel calcio, ma anche quello di oggi in effetti, e sentitelo: «Io sarò sempre quel pugno chiuso». 

È nato a Chiomonte, Val di Susa, cuore dei NoTav: sabato fa settant’anni, il Sessantotto timbra i cinquanta. Sollier, chi è invecchiato meglio?  

«Dura da dire. Io sono certo di un fatto però, la vecchiaia è bruttissima ma io voglio viverla con lo spirito degli anni Settanta. Avete in mente le degenerazioni, il terrorismo, la violenza, ma la contestazione ha influito sul lavoro, la scuola, la famiglia. Ha creato un futuro migliore». 

Calciatore e compagno: problemi etici?  

«A Perugia guadagnavo otto milioni all’anno, non ero ricco ma privilegiato. Con i miei soldi sostenevo il movimento, non facevo il rivoluzionario con il conto a Lugano». 

Meglio il collettivo in campo o quello fuori?  

«Quel Perugia è stato un collettivo perfetto, non ci considerava nessuno ma uniti dalla stessa passione e dallo stesso impegno siamo arrivati in alto». 

Come nacque il pugno chiuso in campo?  

«Lo facevo nei Dilettanti e una volta arrivato in serie A, mi interrogai se fosse o no il caso di continuare. Decisi di sì in nome della coerenza. Oggi quel gesto diventerebbe, come si dice..., virale sui social, ma non avrebbe seguito in campo. Mi piacerebbe che qualcuno lo rifacesse, ma temo che i giocatori moderni non se lo possano permettere. Il calcio di oggi allontana dalla realtà, poi magari qualcuno nel privato agisce in altra maniera. Ma l’impegno politico è uscire allo scoperto, prendere posizione. Ecco, non vedo niente di tutto questo, pugno o non pugno». 

Aveva la tessera di Alternativa Operaia, leggeva il «Quotidiano dei lavoratori»: un marziano?  

«A Perugia non ho mai cercato di fare proselitismo, difficile si parlasse di politica. Solo più tardi a Rimini, cercai con qualche compagno di dar vita a un collettivo dei calciatori di sinistra». 

Con chi e come andò?  

«Ricordo Montesi, Pagliari, Ratti, Galasso. Andò che dopo due riunioni ci sciogliemmo. Scrissi anche all’Associazione calciatori chiedendo loro di schierarsi politicamente proprio come gli altri sindacati, mi rispose l’avvocato Pasqualin dicendomi che tra gli impegni dell’Aic non c’era la politica». 

Oggi non si rivede in nessuno?  

«È un altro mondo. Solo, mi piacerebbe che Damiano Tommasi diventasse presidente della Federcalcio. Mi sembra una persona seria: per questo non vincerà». 

Nello spogliatoio era Ho Chi Minh o Mao. Le dava fastidio?  

«I soprannomi no, erano il gossip di allora. Ero celebre mio malgrado e a volte non riuscivo ad essere naturale. Questo era il fastidio». 

Rinnega il pugno chiuso?  

«Non rinnego nulla. Oggi forse farei anche di peggio». 

Fu mai emarginato per la sua posizione politica?  

«Non diciamo balle. Ho fatto una buona carriera da calciatore e una deludente da allenatore ma solo per colpa mia. Tecnicamente ero scarso, tatticamente un anarchico, ma correvo». 

Problemi con le tifoserie?  

«Solo con quella della Lazio. Che, di destra, mi accolse con uno striscione “Sollier Boia”. Alla vigilia dichiarai ai giornalisti che avremmo battuto la squadra di Mussolini, ovviamente perdemmo e i miei compagni mi dissero di smetterla con certe stronzate». 

In quella squadra c’era Walter Sabatini, ora è dirigente all’Inter e maneggia milioni e giocatori. Se l’aspettava?  

«È l’unica persona di quel periodo che ogni tanto sento, ma non mi permetto di giudicare un lavoro così lontano da me». 

È vero che gli regalò «Cent’anni di solitudine»?  

«Vero. Era Natale e c’era l’usanza di scambiarsi i regali. Io non sapevo davvero che fare e allora presi un libro per ogni giocatore, tutti con dedica. A Castagner, il nostro allenatore, scrissi non ricordo più su quale libro, “non si vive di solo calcio”. La prese bene». 

Dal suo pugno chiuso al braccio teso di Di Canio: differenze al di là dei fronti opposti?  

«Quel pugno era la conseguenza del mio percorso, di uno che ha iniziato nei movimenti cattolici del dissenso come il Gruppo Emmaus o Mani Tese e poi è passato alla militanza politica. Se il suo gesto aveva la stessa genesi, allora, pur rimanendo agli opposti, non ho nulla da dire. Diverso, invece, se lo ha fatto per accattivarsi consensi da parte dei tifosi». 

Si rivede in qualche calciatore?  

«Ero scarso. Farei un torto a chiunque nominassi». 

Vorrebbe giocare oggi?  

«No. Si cresce in batteria, è brutto dirlo ma è così. Non mi piacciono le scuole calcio, come nemmeno quelle di scrittura. Magari ti danno qualcosa in più, ma ti tolgono la fantasia». 

Nel ’76 scrisse un libro (Calci e sputi e colpi di testa): perché?  

«Vinsi un premio per un racconto e l’editore mi contattò. Voleva una cosa sociologica, che palle gli dissi. Se vuole le racconto la mia carriera, dai Dilettanti alla serie A. Avevo già tutto pronto, nel Vanchiglia ogni giocatore teneva un diario. Ce li scambiavamo e li commentavamo: praticamente Facebook».  

Helenio Herrera che le presta la casa di Parigi per un weekend romantico è leggenda o verità?  

«È verità, poi non ci andai, a casa sua non a Parigi, ma era pronto a darmi le chiavi. Che personaggio, aveva pause craxiane quando parlava, era l’unica autorità che mi metteva soggezione». 

Idee o ideali, che cosa è sopravvissuto?  

«In casa ho la foto del Che. Ma il neo liberismo ha sconfitto le idee, la solitudine competitiva ha cambiato il modo di vivere. Io mi nutro ancora di ideali. Alle idee ci pensino i giovani, tocca a loro prendere in mano il mondo. Io ho già dato».

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