IL SIBILO DEI FALCHI
di Luca Celada
Il NYT da grande evidenza all’articolo di Roger Cohen (https://www.nytimes.com/…/wo…/europe/ukraine-russia-war.html) che dichiara: “La guerra in Ucraina ha cambiato per sempre l’Europa.” Non è una semplice constatazione ma più marcatamente un compiacimento: il vecchio continente prigioniero di sterili e pericolose illusioni di pace è infine stato costretto a darsi una scossa e sommarsi e risalire sul carro della storia.
Il pezzo è un elogio del conflitto non già solo come necessità tattica ma come strumento strategico destinato a forgiare e mantenere un nuovo ordine geopolitico. È l’elogio della guerra spoglio perfino della giustificazione “morale,” un’idea più che assecondata, si intende, dalle allucinazioni putiniane.
Fa tornare alla mente la foga dell’ambasciata USA a Maidan e il “fanculo la UE” di Victoria Nuland proferito nel 2014 . E Questa idea di diplomazia come pericoloso intralcio, fa pensare anche a come il decalogo cinese per la pace sia stato ignorato – non meritando nemmeno una risposta critica; si è passati direttamente ai quotidiani avvertimenti a Pechino di “non schierarsi con Mosca”. Quasi un’invocazione.
Non stupisce in questo contesto la celebrazione che fa Cohen del “ravvedimento” dei “mercanti e burocrati” del vecchio continente. Erano talmente illusi dai miraggi di pace da averla iscritta, dopo guerra mondiale, nelle proprie costituzioni. Ora invece perfino la Germania sembra pronta a superare i tentennamenti legati alla sua storia e riconvertirsi da “potenza di pace a muscoloso protagonista geopolitico.” Rimangono sacche di indecisione in alcune capitali del continente, segnala Cohen, ma con un po' di fortuna Berlino adotterà il coraggio che prevale in Polonia e gli ed altri stati in prima linea.
L’Europa guerriera è pronta a risalire sul carro della storia e il pianeta si adeguerà. Quanto a lungo? Non è dato sapere ne è conveniente chiederselo, certe quisquilie saranno adatte ai salotti parigini ma non al confine russo-finlandese. “There is no going back” scrive Cohen usando una frase che si sente sempre più spesso. L’ha usata ultimamente anche il segretario Nato: "la fine di questa guerra non prevede un ritorno alla normalità nelle relazioni con la Russia, non si torna indietro," ha detto Stoltemberg. In America li chiamano “talking points.”
Nell’eclissi della diplomazia la “guerra alla pace” diventa globale. A Washington è stata convocata in questi giorni una commissione ad hoc (congressional executive commission on China) che ha come unico discernibile obbiettivo di alzare i toni e fomentare lo scontro “esistenziale” con l’altra pretendente all’egemonia. La coabitazione planetaria deve appartenente diventare a tutti i costi questione assoluta di vita o di morte ed il “death wish” rimanere il principio guida.
In questa maledetta fretta di aprire fronti di guerra e la corsa a rotta di collo per assicurarsi preventivamente che non possano esserci altri esiti che scontri frontali non si capisce quale sia l’obbiettivo ultimo se non la “endless war” – la guerra come stasi “calda” (modello siriano) o congelata come sulla DMZ coreana. E ricorre infatti il modello guerra fredda - dato solo l’Europa si era potuta illudere che fosse davvero finita, negli anni del “dopomuro” come lo definisce Timothy Garton Ash – avviando l’improvvida ostpolitik.
In questo scenario è disfattista anche il solo immaginare un ipotetica fine al conflitto. La guerra va invece abbracciata come destino naturale, da riprendere dopo la “sbandata pacifista” durata 80 anni. In questa settimana in cui Putin è uscito dagli ultimi trattati di non proliferazione, festeggia chi, come Slim Pickens, sergente sganciato dal bombardiere a cavalcioni dell’ordigno atomico, ha “smesso di preoccuparsi ed imparato ad amare la bomba.”
Fonte: facebook.com/lou.cacilata
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