di Peter Freeman.

Incrociamo le dita e speriamo che l'evoluzione dell'epidemia vada meglio che la scorsa primavera.
Penso però che qualche riflessione dovremmo pur farla. Senza isterie ma anche senza peli sulla lingua.
Il contagio è ripartito nel pieno dell'estate, con la ripresa di viaggi e vacanze, e con gli assembramenti nei luoghi pubblici accompagnati da scarso uso delle mascherine e comportamenti imprudenti. Ne siamo stati tutti testimoni. Del resto le statistiche e i dati rilasciati dall’ISS e il cosiddetto "contact tracing" ci dicevano con una certa precisione dove e in quali contesti i nuovi contagi avvenivano. Il Sud Italia, fin lì sostanzialmente risparmiato dall'epidemia, si è così scoperto esposto come tutti, complici le vacanze estive che molti vi hanno trascorso.
La scienza medica ci aveva allertati in tutti i modi possibili ma molti, troppi, hanno preferito ignorare gli inviti alla prudenza. I più giovani, soprattutto, ma anche un buon numero di individui sopra i trent'anni (parlo di una “media statistica) si sono "ripresi la libertà", pensando (o desiderando) che tutto fosse finito.
Ma la scienza è probabilmente all'ultimo posto in una classifica ideale delle voci più ascoltate - strana cosa, in una società che sempre più spesso ripudia la politica e invoca i cosiddetti "tecnici". Ai più per informarsi bastano i social, qualche tweet condiviso senza indagare oltre, il parere di quello che ci sta più simpatico o che ci racconta ciò che vorremmo sentire.
Il giornalismo, quello serio, non ne parliamo: la parola stessa è abbastanza sputtanata e chi ha mai voglia di leggersi un report o un "long form" (adesso un articolo lungo si chiama così) con annessi link, rimandi, approfondimenti? Meglio un post di Sgarbi contro le mascherine, o il blog di un nutrizionista auto-nominatosi esperto di malattie infettive o il parere dell'ultimo cialtrone ("l'ho fatto: è come un'influenza, adesso sto meglio di prima") o un sondaggio sull'inutilità dei tamponi.
Se la cosa ci può consolare, in buona parte degli lui Stati europei stanno messi peggio di noi. Gli inglesi, che spesso e volentieri praticano una superbia machista e venata di nazionalismo; i francesi che molte volte considerano l'imprudenza una salutare virtù (lo dico forte di memorie alpinistiche); gli spagnoli che non si concepiscono senza i piaceri del riunirsi nelle pubbliche piazze.
Non me ne vogliano dunque amici e amiche se dico che di questa seconda ondata la responsabilità grava soprattutto sulla generazione più giovane. Per imprudenza, forse anche per l'indole che spinge chi ha ancora la vita davanti a sfidare i pericoli senza averne una piena coscienza. Per menefreghismo, anche.
Ad agosto, quando i numeri dei contagi hanno ripreso a salire, mentre nelle discoteche aperte il virus si propagava felice (e chi ne invocava la chiusura veniva additato come un arcigno e triste individuo, nemico dell'economia dello svago e fustigatore dei costumi), negli aeroporti sbarcavano centinaia di giovani reduci dalle isole della Grecia o della Croazia o dai lidi della Costa Brava. Molti di loro erano stati infettati. In maggioranza giovani, spesso asintomatici: l'età media dei contagiati infatti precipitava bruscamente. Rientrati in famiglia, hanno cominciato a cominciato a infettare parenti e amici. Nel giro di un mese e mezzo siamo passati da 200 nuovi malati a 2.500, con la l'età media che ha preso a risalire e una difficoltà crescente a circoscrivere e individuare i contagi.
Le cose sono andate così ed è inutile far finta che no. A marzo-aprile potevamo, a ragione, puntare il dito contro i padroncini della Val Seriana o della Val Trompia che tenevano le fabbriche aperte contro ogni buonsenso, adesso proprio no. E nemmeno possiamo prendercela con la scuola che, pur nelle miserie della politica italiana, fa il possibile per riprendere a funzionare e spera di evitare un lockdown dei nostri decrepiti edifici scolastici.
Come ho detto, non mi importa nulla di cercare capri espiatori (si rassicurino runners e ginnasti che nel tempo libero cercano un po' di salute nel verde pubblico), ma se ci ritroviamo in mezzo all'epidemia e a una seconda ondata che era tanto prevedibile quanto contrastabile, è bene definirne le cause, e le cause sono queste. Punto.
Però una cosa mi colpisce. Ho visto anziani terrorizzati prendere tutte le misure necessarie, rifiutarsi di uscire di casa o farlo con la massima circospezione perché consapevoli dei rischi che anzitutto incombevano su loro stessi. E ho visto troppi "giovani" non solo fottersene ma non considerare nemmeno per un istante la responsabilità che poteva ricadere su di loro, come se fossero del tutto privi di una coscienza dei propri doveri.
Molti dei nostri anziani hanno vissuto gli anni della guerra e molti di noi sono nati a ridosso del dopoguerra: sappiamo che cosa è stato quel periodo e ne serbiamo memoria diretta o indiretta. Questo ci ha tramandato non solo un senso della storia ma anche della responsabilità: sono chiamato a rispondere delle mie azioni e lo sono anzitutto di fronte alla mia coscienza.
Oggi questo senso sembra andato perduto, preferendosi trovare un untore da additare al pubblico disprezzo e sorvolando invece su comportamenti diffusi che nel farsi collettivi rifiutano da subito l’idea di una responsabilità individuale prima ancora che di gruppo.
Mi verrebbe da dire che questa è una società criminogena nella quale ammazzare di botte un ragazzo inerme è considerato giustamente un crimine odioso ma fottersene della salute pubblica è poco più che una questione di buone maniere.

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