tratto da glistatigenerali.it

 

Intervista a Simone Fana, coautore di Basta salari da fame!

Avevamo intervistato Simone Fana, autore con Marta Fana di Basta salari da Fame! (pubblicato da Laterza) lo scorso ottobre, poco prima dell’uscita del libro e soprattutto prima che l’Italia venisse travolta dal ciclone covid. Lo risentiamo in una situazione in cui a volte sembra che l’emergenza sanitaria abbia il sopravvento sulla questione sociale o che ne abbia consegnato il monopolio a imprese, commercianti e ristoratori e a una destra che cerca di cavalcarne le legittime proteste. Nel frattempo sono successe anche altre cose e dunque abbiamo pensato che fosse utile aggiornare quella conversazione. Tra le novità la direttiva europea del 28 ottobre, che pur ridimensionando gli obiettivi inizialmente trapelati, pone ai paesi membri il tema del salario minimo come argine alla crisi sociale e una serie di rinnovi contrattuali, in parte chiusi e in parte invece ancora in alto mare, che aggiungono degli elementi di verifica della tesi di chi afferma che il salario minimo indebolirebbe la contrattazione collettiva. Intanto la legge resta chiusa nei polverosi cassetti delle commissioni parlamentari da due anni.

Non solo la politica in generale, ma anche una parte di sinistra pare essersi concentrata esclusivamente sulla pandemia. Possibile che la questione sociale sia espunta dal dibattito politico?

La situazione a cui assistiamo in Italia dipende dalla composizione del governo e dalle forze sociali. La questione sociale viene cavalcata da destra: lo vediamo nella politica di Confindustria, che continua a insistere sullo scambio salario/welfare, così come nel tentativo di Salvini e Meloni di cavalcare le proteste dei ristoratori e dei commercianti. In questo quadro la sinistra non può non discutere di questione sociale, non solo perché le conseguenze economiche della pandemia la pongono all’ordine del giorno, ma anche perché prima o poi, come tutti ci auguriamo, la pandemia finirà e saremo chiamati ad affrontare alcune questioni dirimenti. Ne elenco alcune. C’è il tema dell’occupazione: si sono persi 800.000 posti di lavoro e vedremo quanti ancora ne perderemo a causa della pandemia. Cosa facciamo? Questo tema trascina con sé quello degli ammortizzatori sociali: serve uno strumento che copra tutti i lavoratori, ma anche che consenta di vivere dignitosamente e arrivi con tempestività. E infine c’è la questione salariale nel suo complesso che è centrale per due ragioni.  Da una parte perché bisogna combattere il fenomeno della povertà e delle disuguaglianze, dall’altra perché non ci sarà crescita economica se non rilanceremo i salari e i consumi. La sinistra non può lasciare alla destra l’opportunità di occupare lo spazio politico aperto da queste questioni.

Rispetto alla volta scorsa ci sono alcune novità: L’UE a ottobre ha fatto una direttiva sul salario minimo; Bonomi, come dicevi, insiste sullo scambio tra salario e welfare e poi ci sono stati alcuni rinnovi contrattuali – sanità privata, telecomunicazioni e rider – con aumenti irrisori, aziende che disdettano il contratto appena rinnovato perché giudicano gli aumenti comunque eccessivi e addirittura lo sdoganamento del cottimo. Sulla vertenza dei metalmeccanici, appena iniziata, la posizione di Fedremeccanica è talmente netta che persino FIM e UILM sono costrette a far sciopero. Regge ancora l’idea che il salario minimo uccide la contrattazione?

Guarda, in realtà io continuo a pensare che il salario minimo può solo favorire la contrattazione. La contrattazione è in crisi profondissima, certo, e lo è a tutti i livelli. Tu hai citato i metalmeccanici, che oggi chiedono di recuperare almeno in parte quello che hanno perso soprattutto con l’ultimo rinnovo, dove lo scambio tra salario e welfare c’è già stato. Poi c’è la grande partita del contratto multiservizi, quei famosi lavoratori “essenziali”, inservienti, operatori delle ditte di pulizia, insomma quelli che mandano avanti scuole, ospedali e uffici pubblici. Sono lavoratori con un salario che non supera i 7 euro lordi l’ora, il più basso d’Europa, e un contratto che non viene rinnovato da 7 anni. Poi c’è il pubblico impiego, con Conte che ieri ha dato una tiratina d’orecchie ai dipendenti pubblici perché chiedono più risorse per il loro contratto. Infine figure come i rider, che dal contratto sono addirittura esclusi. La realtà è che la contrattazione è in crisi, che oggi riflette i rapporti di forza sfavorevoli ai lavoratori e ha bisogno di uno strumento legislativo che la sostenga e che fornisca una sorta di pavimento, al di sotto del quale le retribuzioni non devono scendere. Una volta stabilito questo pavimento nulla vieta ai sindacati di giocare il loro ruolo e strappare risultati migliori. Ma il ragionamento insomma va invertito. Se la contrattazione da sola non riesce a strappare dei risultati, allora serve uno strumento legislativo e naturalmente non basta fare il salario minimo, bisogna anche farlo bene.

In questo momento parlare di aumenti salariali sembra un paradosso, ma in realtà accanto alle imprese che hanno perso ci sono quelle che hanno guadagnato e guadagneranno.

Certo. La pandemia ha smascherato la retorica del rapporto tra salario e produttività, perché certo ci sono settori che sono stati colpiti duramente dalla crisi sanitaria, ma ce ne sono altri che invece ne hanno tratto vantaggio, eppure anche lì i salari restano al palo. L’idea che la crescita dei salari è legata all’aumento della produttività si conferma una menzogna. Del resto a dircelo sono i dati. Nel 1993 si è sancito il principio che i salari devono rimanere sotto l’inflazione e che quindi gli aumenti devono arrivare dalla contrattazione di secondo livello ed essere legati alla produttività. Ma Pierluigi Ciocca, che viene dalla Banca d’Italia e non può essere certo tacciato di bolscevismo, ha messo in luce che dal 1995 al 2006 i profitti delle imprese italiane sono aumentati come mai, ma la produttività è rimasta ferma e i salari bloccati.

Tu dici che anche gli ammortizzatori sociali sono serviti alle aziende per abbattere il costo del lavoro e aumentare i profitti.

Certo, perché anche se la percezione diffusa è che la cassa integrazione sia uno strumento di sostegno solo per i lavoratori, in realtà aiuta le imprese a ridurre il costo del lavoro, perché hanno lavoratori che fanno meno ore e quindi producono meno, ma allo stessso tempo producono a un costo minore. A questo si aggiunga il fatto che secondo i recenti dati dell’INPS e di Bankitalia un quarto delle ore di cassa integrazione covid autorizzate sono state richieste da aziende che durante il lockdown non hanno perso fatturato e che quindi hanno risparmiato sui dipendenti. Si tratta di un trasferimento netto di ricchezza dai salari ai profitti.

A livello europeo l’enfasi della von der Leyen sul salario minimo poteva essere un’occasione da prendere al volo e sfruttare, ma il sindacato non solo non l’ha colta, ma si è mosso in ordine sparso, ciascuno a difesa delle proprie economie nazionali.

E’ un fenomeno che non mi sorprende e riflette semplicemente il fatto che gli assetti dell’UE si fondano sulla logica della competizione piuttosto che su quella della cooperazione. Per questo non mi stupisce che il sindacato svedese, rispondendo alle esigenze competitive della propria economia, difenda il principio che il salario sia fissato dalla sola contrattazione o che il sindacato tedesco rifletta le spinte di una parte della propria base, cioè dei lavoratori più legati all’export, che gli chiedono di tutelare le loro retribuzioni dal dumping salariale. D’altra parte però in Germania c’è un enorme settore di lavoro povero, che ha costretto il sindacato ad accettare l’introduzione del salario minimo.

Ecco, su questo ti interrompo perché c’è un aspetto contraddittorio. Cioè da una parte è vero quello che dici, dall’altra però è vero anche che la Germania ha basato la competitività delle proprie merci e quindi il suo export proprio sul dumping salariale, cercandosi dei subfornitori in aree con un costo del lavoro più basso, come il nord Italia oppure Ungheria e Repubblica Ceca. Come lo spieghi?

E’ vero quello che dici, però la Germania ha delocalizzato in modo selettivo, cioè è riuscita a instaurare un equilibrio in cui ai lavoratori tedeschi vengono assicurate le produzioni a maggior valore aggiunto e quindi una quota superiore nella distribuzione del valore che producono, mentre una parte dei costi viene abbattuta affidando le attività a minor valore aggiunto, come dicevi tu, a imprese del nord Italia o dell’Europa orientale. Ora evidentemente anche quei lavoratori tedeschi che vivono grazie alle esportazioni e che sono anche quelli sindacalmente più forti chiedono che i loro stipendi vengano tutelati dal dumping salariale. Senza contare che ci sono grandi sacche di lavoro sottopagato, che sono quelle che alla fine hanno convinto il sindacato tedesco ad accettare l’introduzione del salario minimo.

Ok, torniamo al sindacato europeo.

Se l’UE, come dicevo, è fondata su una logica competitiva ci vorrebbe un sindacato europeo che provi a rompere quella logica e proponga una ricomposizione del mondo del lavoro. La realtà è che c’è una concorrenza spietata tra i lavoratori europei e che in questi anni in Europa la competizione ha prodotto un’esplosione delle diseguaglianze nei paesi ma anche tra i paesi. Di fronte a questa situazione mancano la forza, la capacità, l’iniziativa ma anche una lettura in grado di interpretare i processi economici e sociali che hanno determinato questa situazione.

Hai girato l’Italia per fare presentazioni del libro. Che cosa pensa la gente?

Per me e Marta Basta salari da fame! era un po’ una sfida, cioè provare a porre con forza la questione del salario e vedere che reazione avrebbe suscitato il libro. Ma devo dire che girando in tutta Italia – nord, sud e centro – a presentare il libro abbiamo trovato solo conferme, cioè sono tantissime le persone consapevoli che il terreno su cui rilanciare è proprio quello salariale. Una campagna sui salari ha potenzialmente un consenso trasversale: riguarda i dipendenti pubblici come i lavoratori privati, le professioni più tecniche e intellettuali, come giornalisti e insegnanti, ma anche chi lavora a cottimo e poi lavoratori della logistica, fattorini, infermieri. Perciò il salario è un possibile terreno di ricomposzione. E il salario minimo è anche lo strumento in grado di garantire che quando un lavoratore finisce in cassa integrazione non debba vivere con 600 euro al mese. Perciò salario minimo e ammortizzatori sociali sono temi che si intrecciano tra loro.

Nel frattempo però la politica gioca con questo tema da due anni. La ministra Catalfo continua a evocare le legge sul salario minimo che però non si fa mai. Conte ha parlato di riforma degli ammortizzatori, ma tutto tace. Che cosa si può fare per mettere sotto pressione la politica?

Sicuramente c’è bisogno di costruire delle alleanze. Bisogna parlare al mondo sindacale, ma bisogna farlo alla pari. Invece spesso in questi anni abbiamo visto la sinistra parlamentare parlare al sindacato col cappello in mano, perché comunque la CGIL ancora inquadra milioni di lavoratori, mentre i partiti di sinistra ormai sono in crisi e perdono iscritti e quindi ci sono partiti che hanno discusso di salario minimo, ma poi non hanno avuto il coraggio di proporlo per paura della reazione del sindacato. Eppure oggi vediamo che dentro la CGIL qualcosa si muove.

Mi stai dicendo in sostanza che i lavoratori sono più avanti del sindacato e dei partiti di sinistra.

Sì, perché sul tema del salario vai a toccare un nervo scoperto. E’ una questione centrale che riguarda i problemi quotidiani della gente e d’altra parte, come dicevo prima, c’è anche un aspetto economico: se non garantisci i consumi dando ai lavoratori dei salari decenti non riprenderai mai un sentiero di crescita equilibrato, ma continuerai ad avere una crescita squilibrata e contraddittoria, che poi è anche il tipo di sviluppo che ci ha portato a tagliare la sanità e oggi ci rende impreparati ad affrontare la pandemia.

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