di Leonardo Caponi.

Da tempo il libro “I piedi dei Soviet, il futbol dalla rivoluzione russa alla morte di Stalin”, scritto da Mario Alessandro Curletto, docente di letteratura e civiltà russe all’Università di Pavia e autore di altri scritti similari o di carattere più generale sull’Unione Sovietica, editore il Melangolo, costituisce un preciso, ricco e interessante contributo che, dopo la scomparsa dell’URSS, può apparire anche “curioso”, alla conoscenza non banale del calcio sovietico, ma, e questo è forse il suo valore maggiore, alla conoscenza più generale del primo Paese e della prima potenza socialisti del mondo. Il libro, lo si percepisce, non è scritto da un comunista (almeno questa è l’opinione dell’autore di questa nota) ma neppure con spirito anticomunista e antisovietico.

L’opera è, in sostanza, dedicata al rapporto tra calcio (e quindi dello sport più in generale) e potere. E’ molto ricco di notizie, fatti, personaggi che sarebbe troppo lungo e arduo, nel dettaglio, trattare e che richiedono la lettura del libro, che è scritto (tra parentesi) in maniera scorrevole e offre una lettura piacevole. Meglio metterne in risalto gli aspetti che sembrano, per il largo pubblico, di maggior interesse.

Cominciamo con quella che, per chi scrive, ma credo per molti, costituisce una sorpresa: il calcio, in Russia, era praticato già dagli inizi del secolo ‘900, in pieno impero zarista. Pur avendo un carattere nazionale e trovandosi diffuso in tutte le principali città del Paese, che all’epoca comprendeva anche la Polonia, a cominciare da Pietroburgo, Mosca, Odessa, Kiev, Lodz, era però suddiviso in campionati locali e cittadini e la partecipazione ai tornei presentava costi molto elevati che non potevano che essere sostenuti da ricchi finanziatori privati, come feudatari o membri di Corte.

Il campionato a dimensione nazionale prende corpo dopo la Rivoluzione del ’17 e di conseguenza si formano alcune delle squadre (Spartak, Dinamo Mosca e Kiev, Lokomotiv, CSKA) che avrebbero segnato la storia del calcio sovietico. Il primo campionato nazionale si svolse nel 1936. Le squadre erano divise in vari gruppi, tra cui quella, che potremmo definire la serie A, di nove, nella quale, nella partita inaugurale, a Leningrado, la squadra locale sconfisse il Lokomotiv. Negli anni il campionato ebbe varie formule tra cui quello primaverile (una specie di girone di andata) e quello autunnale (girone di ritorno) che però ebbero assegnato il titolo a due club diversi.

Ora il libro mette in luce, dopo la collettivizzazione sovietica, il dilettantismo del calcio, come del resto dello sport in URSS, come carattere fondante e scelta sicuramente in linea di principio giusta (basti guardare i costi vertiginosi e il livello di corruzione del calcio occidentale), anche se, è inutile nasconderlo, a una parte degli atleti, specie quelli impegnati in nazionale, fu attribuita la possibilità di praticare l’attività sportiva praticamente a tempo pieno. La retribuzione dei calciatori (di questo non si trova menzione nel libro) era assente o modesta.

Il calcio fu usato come strumento di lotta per il prestigio, il potere, la primazia tra i vari gruppi pubblici, detentori delle squadre? Questa è la tesi, in realtà difficilmente contestabile, di Curletto che, più che affermarlo in modo esplicito, correttamente, lo fa trasparire dai fatti. A giudizio di chi scrive si tratta, alfine, di un peccato veniale, perché i successi sportivi non furono mai usati come strumento di scalata politica (come ad esempio fu per Berlusconi) ma, caso mai, per promozioni nell’apparato statale e burocratico e di acquisizione di meriti e riconoscimenti. C’era anche, naturalmente, un attaccamento al club e una passione reale e spontanea.

L’altro punto di discussione (e l’attacco rivolto per decenni all’URSS) è quello dell’uso fatto dal potere per finalità propagandistiche. Anche qui mi pare un rilievo innegabile anche se, devo aggiungere, in ogni epoca e in ogni stato (specie quelli impegnati in grandi trasformazioni sociali) il successo sportivo (come quello scientifico e altro) è stato usato per dimostrare la bontà del sistema e creare o incentivare l’orgoglio nazionale e il consenso verso il governo. Maestri in questo sono stati gli Stati Uniti d’America E poi nell’URSS ci furono figure di campioni (penso a Lev Jashin che disputò la sua prima partita tra i “grandi” nel 1949 a 17 anni) che sono divenute icone internazionali, essendo fideisticamente e orgogliosamente legati alla propria patria e al Partito.

La “Partita della Morte” occupa un posto curioso e tutto speciale nel racconto di Curletto. La vicenda che riecheggia, se non sbaglio, una o due americanate, affidate a film totalmente inventati e successivi alla guerra, appare controversa, nel senso che ne esistono varie versioni. In sostanza nel campo di concentramento della Kiev occupata dagli hitleriani, si svolge una partita tra (e qui nascono le diverse versioni) una squadra professionista tedesca che affronta gli atleti della Dinamo Kiev, o tra una squadra di ufficiali tedeschi che sfidano ufficiali sovietici, o tedeschi professionisti che giocano contro una semplice selezione di detenuti sovietici. Esiste anche una versione, diciamo così negazionista, sul reale svolgimento della sfida, ma Curletto non è di questa corrente. Fatto è che la partita viene vinta, contrariamente a ogni previsione e attesa dell’alto comando tedesca, dai russi sul punteggio (su questo tutti concordano) di 2 a 1. E’ un esito beffardo e inaccettabile per gli hitleriani che scatenano una feroce vendetta contro gli eroici calciatori sovietici che vengono torturati e, in parte, uccisi. Ma il clamore dell’evento fu una grande iniezione di fiducia per i combattenti dell’Armata Rossa e il popolo sovietico.

Mi pare, per concludere, che il libro di Curletto contribuisca grandemente a smentire l’immagine cupa e opprimente ( che si sviluppò poi massicciamente negli anni della Guerra Fredda) dello sport sovietico, nel quale gli atleti avrebbero raggiunto ottime prestazioni non per amore, applicazione e attaccamento allo sport e all’orgoglio nazionale (che comunisti o non comunisti) non è mai mancato in URSS, ma per paura delle repressioni. A questo proposito Curletto descrive le conseguenze del fallimento della spedizione olimpica sovietica nel ’52 a Helsinki, Stalin ancora vivente. Ci fu quella che definirei la caduta di qualche testa importante e una operazione di ristrutturazione calcistica, che mi fa pensare a quella avvenuta in Italia all’epoca della debacle in Inghilterra della nazionale di Fabbri, ma nessuno fu, per dire, mandato ai gulag.

Delle accuse di doping ai sovietici, altro tormentone post bellico di americani e occidentali, il libro non fa cenno, forse perché sostanze e controlli allora erano assenti. Io penso che del doping ogni Paese, si pensi al calcio o al ciclismo italiano, ne hanno fatto uso. In ogni caso non si può certo affermare che i grandi successi dello sport sovietico e dei suoi campioni, siano attribuibili alle sostanze dopanti. Mi viene in mente l’ironia del capodelegazione sovietico a una Olimpiade, non ricordo quale, che, alla domanda di un giornalista sul perché le atlete sovietiche avessero, a suo dire, una voce mascolina, rispose: ”Mica sono venute qui per fare un concerto”.

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