IL POPULISMO DI MERCATO E IL GOVERNO DI GIORGIA MELONI
di Salvatore Cingari
Orban nel 2013 ha detto che lo Stato sociale è superato e che al diritto va sostituito il merito. La politica di Fratelli d’Italia rientra a pieno titolo in questo quadro e cioè nel populismo di mercato nella sua declinazione neo-conservatrice. Nel discorso di insediamento Meloni, non a caso, ha detto: "Non disturbare chi vuole fare". L'etica del produttore è contrapposta alle pastoie burocratiche della collettività, rispetto alla quale il suo partito si è mostrato insofferente anche durante della pandemia
Da quando il nuovo governo presieduto da Giorgia Meloni si è insediato, non senza sorpresa alcuni osservatori hanno rilevato come non ci si trovasse di fronte a un esecutivo caratterizzato da un orientamento populista bensì da un progetto del tutto schiacciato sulle ricette neo-liberiste, rispecchiate nell’adesione alla politica estera Ue e Nato. In realtà “populismo” e neoliberismo non sono affatto in contraddizione. Anzi il ciclo neoliberista è stato inaugurato da Thatcher e Reagan proprio all’insegna di un programma neo-liberista proposto attraverso una politica di tipo populista.
Stuart Hall lo registrò tempestivamente per la leader inglese, ma la stessa impronta va riconosciuta per il progetto reaganiano. Si trattò di un populismo di mercato (espressione utilizzata da Thomas Frank nel suo libro One market under good e ripresa anche da Zygmunt Bauman in Homo consumens), ampiamente favorito dallo sviluppo degli oligopoli privati di comunicazione di massa: riduzione del potere di sindacati e partiti sulla società e dell’impegno dello Stato nell’economia, con le sue inefficienze e potenzialità corruttive, flessibilizzazione del mercato del lavoro, facilitazione dell’azione delle imprese e taglio delle tasse e della progressività fiscale, modellando le istituzioni pubbliche sul paradigma aziendale (corporate populism) per aumentare la produttività favorendo lo sgocciolamento della ricchezza verso il basso. Nonostante l’aprirsi della forbice delle diseguaglianze, il consenso è garantito grazie ad una sorta di fiducia nella possibilità residuale di ognuno di poter essere fra gli eletti di successo.
Pensiamo come lo stesso berlusconismo, con la fantasmagoria dell’immaginario veicolato dalla sua tv commerciale, abbia contribuito a trasformare il clima etico italiano distaccandolo da quello legato al costituzionalismo democratico improntato all’idea di una tutela dei diritti sociali accanto a quelli civili e politici.
Assieme alla Lega Nord, Berlusconi ha riattivato le tematiche del populismo reazionario del secondo dopoguerra (dall’Uomo qualunque al poujadismo) mirate a delegittimare il ruolo roussoviano della politica intesa come contratto volto a correggere gli squilibri sociali che emergono nella società civile: elogio dunque del soggetto produttore, autonomo da partiti e sindacati, e di un mercato libero da pastoie determinate dalla collettività. A ben vedere anche l’illusoria catarsi di tangentopoli finì per agitare un mito della società civile contrapposta alla politica, in cui però non uscì fuori vincente la democrazia dei luoghi di lavoro o l’autonomia sociale mutualistica, bensì il capitale privato puro e semplice, ora però impegnato ad aggredire un mercato globalizzato e finanziarizzato, in cui ben poco sarebbe sgocciolato in basso. Molta parte della cultura di sinistra di allora fu come sussunta in questa rivolta contro la politica e lo Stato: rivolta di cui lo stesso abbandono del sistema elettorale proporzionale fu una eclatante rappresentazione
Thatcher, Reagan, Berlusconi (ma anche il peronista di destra Menem) e Bossi sono andati al potere con un programma neo-liberista coniugato con una piattaforma di valori neo-conservatori.
Il ciclo immediatamente successivo ha visto invece affermarsi formule di populismo neoliberista coniugate con i diritti umani e civili: Clinton e Blair, che hanno avuto un ruolo seminale in questo senso, fino a Obama, Renzi (che ha radicalizzato gli orientamenti del Lingotto) e Macron. La scommessa era promuovere i diritti civili senza toccare il modello di sviluppo e anzi accelerarne il dispiegamento sulle ceneri delle istituzioni pubbliche ereditate scomodamente dall’age d’or. Secondo Nancy Fraser (lo scrive in un saggio dal titolo gramsciano: Il vecchio muore e il nuovo non può nascere) la mossa che aiuta la politica liberal-progressista a rendersi accettabile è la sostituzione dell’idea di giustizia sociale con quella di meritocrazia. E tuttavia la parentela fra il populismo mercatista di destra e quello di sinistra si vede anche in questo. Il merito come criterio di giustizia è agitato anche dai neo-conservatori, sebbene in quanto realtà da preservare rispetto alle ideologie del politicamente corretto, e non – come per i liberal-progressisti – in quanto prospettiva da realizzare. Jo Littler (Against meritocracy) ha sottolineato come Trump abbia utilizzato il mito del successo ma anche attaccato i dispositivi di protezione sociale per determinate categorie di assistiti, perché ritenuti responsabili di sottrarre risorse a chi meritevolmente contribuisce alla produttività. Victor Orban nel discorso di Chatam House del 2013 a Londra dice chiaramente che lo Stato sociale è superato e che al diritto va sostituito il merito.
La politica di Fratelli d’Italia rientra a pieno titolo in quest’ultimo quadro e cioè nel populismo di mercato nella sua declinazione neo-conservatrice. Nel discorso di insediamento Meloni ha enfatizzato come il suo governo non intenda disturbare chi “vuole fare”: è l’etica, cioè, del produttore contrapposta alle pastoie burocratiche della collettività, rispetto a cui il partito si era mostrato insofferente anche al tempo della pandemia. A ben vedere anche la politica fiscale anti progressiva, proiettata verso la flat tax, ha il fine di incentrare lo sviluppo economico, post fordisticamente, sull’offerta e sulle capacità superiori dei produttori rispetto alla domanda dei soggetti meno capaci. Non redistribuzione, dunque, ma fiducia che il mercato sortisca da sé effetti di accrescimento generale del benessere attraverso un aumento della produzione e l’intensificazione dell’innovatività alla Steve Jobs, richiamato nel suo primo discorso dalla Premier. L’abolizione del reddito di cittadinanza vuol farla finita con l'”assistenzialismo” slegato dal reale contributo lavorativo alla società, in una generale rimozione della fagocitazione del lavoro ad opera del presente modello di sviluppo; ma in una rimozione, anche, dell’esistenza di un’enorme mole di rendite di cui per via familiare beneficiano i soggetti privilegiati e, insieme, di come la finanziarizzazione dell’economia consenta un enorme reddito, per così dire, di anti cittadinanza a chi ha capitali da investire in borsa. L’enfasi sul merito scolastico nel nome stesso del ministero dell’istruzione deriva dalla stessa tendenza a obliterare le fratture di classe: il problema non è far sì che ai ceti meno abbienti sia data l’opportunità di potere godere al pari degli altri delle possibilità di apprendimento fornite dalla scuola. Ma è proprio la scuola – secondo i maître à penser a cui Meloni si ispira – che determina la diseguaglianza sociale, essendo incapace di allineare i figli di famiglie meno acculturate e ricche con quelle più ricche, rinunciando al giusto rigore e severità nei metodi e nelle valutazioni. E ciò proprio mentre nelle scuole e nelle università i rappresentanti degli studenti stanno denunciando con forza il malessere persino suicidogeno che percorre le aule assediate da una pressione performativa disegnata su un omologante concetto di merito. Anche per quanto riguarda l’autonomia differenziata la premier ha scomodato il merito: dato che proprio a questo criterio tale sistema si ispirerebbe, in quanto prometterebbe ad ogni regione di ottenere solo quei diritti che essa riesca a guadagnarsi. Inoltre non si può non vedere come il taglio in finanziaria per il sistema carcerario e le posizioni assunte sulla questione delle madri detenute rimandino alla distinzione fra cittadini meritevoli e soggetti marginali e improduttivi: che è tanta parte del populismo penale e del securitarismo contemporaneo, secondo cui la povertà e la devianza sono un segno di irresponsabilità personale da punire e non un problema collettivo da risolvere.
Giorgia Meloni, nel suo discorso di insediamento, si è del resto autorappresentata come un underdog, sia pensando alla sua cultura politica, a lungo emarginata e discriminata al tempo della prima repubblica, sia alla sua estrazione familiare non legata a rendite di posizione. Dopo una catena di premier in un modo o nell’altro di diverso conio, l’immagine ha avuto un certo impatto, richiamando una populistica rottura con i cerchi magici e i gruppi Bilderberg a favore del sogno di emergere delle persone comuni. Ma si tratta di una illusoria “teologia della prosperità”. Uno su mille ce la fa. Il problema di una democrazia repubblicana è invece che anche gli altri novecentonovantanove abbiano garantita una vita dignitosa e la possibilità di valorizzare i loro plurimi talenti. Ma per far questo andrebbe cambiato quel modello di sviluppo che invece il melonismo abbraccia nelle sue forme più radicali.
Fonte: Left
Recent comments
11 years 40 weeks ago
11 years 40 weeks ago
11 years 42 weeks ago
11 years 42 weeks ago