di Lorenzo Giarelli

“Per la prima volta siamo riusciti a coinvolgere ucraini, russi e bielorussi. Siamo qui per farci domande, non per dare risposte”. Uno dei promotori racconta così l’International summit for peace in Ukraine, la due giorni che raduna a Vienna un centinaio di relatori, almeno 40 Paesi e decine di sigle pacifiste di tutto il mondo, compresa una vasta rappresentanza italiana: “Noi abbiamo una grande tradizione – dice Fabio Alberti, fondatore di Un ponte per –. Non a caso nel 2003 la manifestazione più grossa contro la guerra in Iraq ci fu a Roma”.

E qui fin dalle 10 del mattino arrivano i rappresentanti di Acli, Sant’Egidio, Emergency, Cgil, Rete Pace e Disarmo, che si uniscono alla rete internazionale di enti che in questi mesi ha già condiviso campagne comuni.

Noam Chomsky e Jeffrey Sachs, intellettuali americani tra i più feroci contro le politiche estere del proprio Paese, intervengono in apertura. Chomsky è netto: “È improbabile la sconfitta sul campo della Russia, invece è molto probabile che Putin reagisca con l’escalation. La posizione degli Usa è che la guerra debba continuare, perché l’Ucraina deve essere messa in una condizione migliore per negoziare. La verità è che sarà in una condizione sempre peggiore, perché di questo passo arriverà ai negoziati distrutta”.

Sachs inchioda gli Usa a 30 anni di errori: “Ero consulente di Gorbaciov quando gli Usa si impegnarono a non allargare la Nato. Due anni dopo, Washington programmava l’estensione a Ucraina e Georgia”. Poi “il disastro del rovesciamo di Yanukovich” nel 2014 e il “costante rifiuto di ogni mediazione”. Per Sachs “la Nato dovrebbe promettere di non allargarsi per ottenere il ritiro dei russi”, andando verso “l’unica soluzione possibile”: “L’Ucraina Stato neutrale”.

Ma nei due piani del centro congressi c’è molto altro. Passeggiano e si confrontano obiettori di coscienza russi (anche grazie all’attività dell’italiana Zaira Zafarana), pacifisti ucraini, veterani americani, sindacalisti, attivisti. E tanti giovani. Massimiliano Franco è coordinatore dei Giovani delle Acli: “Vorrei far capire che anche se la guerra sembra lontana a noi giovani privilegiati, ha enormi impatti sociali, ambientali, economici, culturali”. Mattia Donati, 26 anni di cui 11 in Sant’Egidio: “Se non tocchi con mano certi temi, li senti lontani. Per questo ho portato la testimonianza della Comunità”.

Nelle pause dai panel ci si organizza in otto gruppi di lavoro, ciascuno da 20-30 persone. “Siamo qui con posizioni diverse – spiega Sergio Bassoli, coordinatore di Europe for Peace – anche se ci descrivono sempre come dei fanatici”. E in effetti le posizioni sono sfumate, talvolta divergenti. Bassoli, per esempio, coordina un tavolo portando la sua netta contrarierà all’invio di armi a Kiev, ma tra i relatori c’è anche Karyna Radchenko, donna ucraina che porta nella voce spezzata la sofferenza del suo popolo: “Per me è difficile chiedere di interrompere gli aiuti”.

Per più di un’ora condivide il palco con il russo Oleg Bodrov e la bielorussa Olga Karatch. Da remoto interviene Yuri Sheliazenko, dissidente ucraino e riferimento dei non violenti a Kiev. Condanna la “macchina da guerra di Putin”, ma supplica di “trovare una soluzione, perché la soluzione non può essere la guerra in eterno”. E pazienza se anche stavolta si rischia di passare da filorussi se si azzarda a parlare di negoziato. Sean Conner, direttore esecutivo dell’International Peace Bureau – il più antico istituto per la pace al mondo, promotore della Conferenza – cammina nervoso per i corridoi.

Nei giorni scorsi s’è sentito dare del putiniano: si è scatenata una violenta polemica contro il convegno e i suoi protagonisti, spacciati per fiancheggiatori russi; il principale sindacato locale, che aveva sostenuto la conferenza, si è tirato indietro a tre giorni dall’evento e così pure la sala prenotata. Gli organizzatori hanno dovuto fare tutto daccapo in un clima da caccia alle streghe: “Qualcuno crede che la fine della guerra passi solo dal campo – dice Conner – ma la storia ci insegna che non è così”.

Rosa Logar (Women’s International League for Peace and Freedom) non nasconde l’amarezza: “È triste che il popolo della pace debba aver paura di parlare”. Alla fine, il primo giorno convince i relatori. Se ne parlerà oggi (tra gli interventi, il presidente brasiliano Lula da remoto e l’eurodeputata irlandese Clare Daly) quando verrà diffusa una dichiarazione comune il cui sottotesto è già chiaro: l’internazionale pacifista dovrà ritrovarsi presto.

Fonte: FattoQuotidiano

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