di Antonello Ferroni - http://www.antonelloferroni.it/

Abbiamo aspettato prima di parlare di Federico Giunti e della sua storia. Perché il calcio, si sa, è pronto ad incensarti così come, il giorno dopo, a gettarti nella polvere al primo risultato negativo. Ed è sempre bene andarci cauti per non bruciare persone e valori, per quanto possano essere solidi come nel suo caso.
Ma ormai quanto sta realizzando a Perugia Federico non può più essere tenuto in secondo piano. Perché un primato in classifica fa parlare e le modalità in cui questo è arrivato sono nuove rispetto alle stagioni più recenti, ricordano un Perugia antico di almeno un paio di decenni. Il riferimento va ad una squadra compatta, capace di muoversi come un sol uomo, reparti stretti, con centrocampisti e attaccanti votati sia alla fase offensiva che a quella ancor più importante di contenimento, difensori centrali chiamati a partecipare al gioco e all’impostazione e valorizzati di conseguenza (Monaco), laterali inventati dal nulla (Pajac), centrocampisti fatti crescere in maniera esponenziale (Colombatto), presunti esterni trasformati in trequartisti con risultati stratosferici (Terrani, Buonaiuto), attaccanti liberi di sprigionare potenzialità realizzative intuite e ancora mai concretizzate (Han, Cerri), gestione del gruppo perfetta nel far sentire fondamentale ogni elemento, capacità di mostrare una manovra brillante ed efficace in verticale in modo da far esprimere al massimo le reali potenzialità, insieme la duttilità mentale di capire i momenti di difficoltà trasmettendo alla squadra la capacità di soffrire e di difendersi con aggressività, cattiveria e senza vergogna, se necessario arrivando anche ad utilizzare un difensore in più nei finali di partita.

CREDITS
Doti di grande buon senso ed intelligenza, solitamente proprie ai grandi, cui Federico ha saputo aggiungere anche la capacità di comunicare in maniera seria, competente, efficace e senza fronzoli con tifosi e giornalisti. Fatti incontestabili evidenziati senza dubbio alcuno da queste prime sei giornate di campionato e dall’estate che le ha precedute, così come un fatto è che il merito di tutto questo va a chi Giunti lo ha scelto a dispetto del curriculum, il presidente Massimiliano Santopadre che lo cercava già anni fa avendo intravisto in lui le doti nascoste di cui sopra e il ds Roberto Goretti, che ha pronunciato per primo il suo nome perché ben lo conosce da tantissimi anni e che alla sua ‘formazione’ ha in un certo qual modo assistito e partecipato. Dopo la vittoria sul Frosinone e la conclusione del trittico di partite terribili, è giusto dunque andare a scoprire cosa ha portato l’ex golden boy di Città di Castello a diventare il tecnico di grande livello che sta mostrando di essere oggi, tenendo ben presente il fatto che il suo Perugia ancora non ha vinto nulla e che le vere difficoltà difficoltà di questo campionato devono arrivare. Ma il suo Perugia ha già dimostrato di avere anche le doti per affrontarle e spazzarle via.

IL FEDERICO PERUGINO
Del Federico Giunti perugino sappiamo tutto o quasi. Mezz’ala sinistra di gran classe, quando arrivò nel Perugia nel ’91 col mancino già ricamava e scriveva, condendo campionati e prestazioni con le sue giocate bellissime ed efficaci tra assist, grandi capacità di imbeccata e qualche buon gol. Nel Città di Castello ‘Chico’ aveva vinto un campionato di Promozione mettendosi in evidenza al punto da essere considerato insieme al baby prodigio Luca Ciarapica (chi ricorda una doppietta di questo attaccante a Braglia in una amichevole persa 2-1 dal Perugia con la Tiberis?) come il miglior giovane emergente umbro. Ciarapica si fermò per un grave infortunio, Chico approdò al Perugia.
E da protagonista visse tutte le indimenticabili vicende di quegli anni: il debutto nel Perugia di Dossena, Nitti e Di Carlo, il duello infinito con l’Andria, l’avvicendamento tra Papadopulo e Buffoni, il derby targato D’Ermilio, i ritiri di Gaucci, la disfida dell’addio ai sogni di Barletta. Un anno dopo arrivarono le vittorie in giro per l’Italia del sud con i vari Gelsi, Pagano, Camplone e Cornacchini nel grifone guidato dal giovane tecnico Novellino, insieme all’avvento di Castagner, il duello con l’Acireale concluso sul campo allo spareggio di Foggia, l’epilogo nei tribunali per il famoso caso del cavallo. E ancora: la trionfale cavalcata con Castagner alla guida, polverizzando ogni record della C1 e conquistando il meritato salto in B. Dove ancora da mezz’ala affrontò una prima stagione con Castagner (l’anno di Matteoli e Ferrante, per capirci) fino alla trasformazione in regista classico (mezzeali Goretti e Allegri) in quella successiva grazie al maestro Galeone. Quell’anno indimenticabile per tutti i perugini vide uno scintillante grifone tornare in serie A.

NOVELLINO, ILARIO E IL GALE
L’epilogo dei suoi meravigliosi sei anni biancorossi avvenne però come noto nel ’96 con la retrocessione in B al termine di una delle stagioni più incredibili che storia ricordi, iniziata in un Perugia fantastico e destinato a lottare per un posto in coppa Uefa e conclusa nella triste giornata di Piacenza, le cui scorie Federico è stato costretto a portarsi addirittura ai giorni nostri. In troppi hanno dimenticato come quell’anno Giunti chiuse la stagione in cima a tutte le classifiche di rendimento, conquistando anche la maglia della nazionale nell’amichevole contro la Bosnia. Furono sei stagioni, quelle perugine, davvero preziose per la sua crescita non soltanto da calciatore ma anche da uomo già dotato di valori importanti per cultura ed educazione familiare, anni per di più trascorsi in un club che tra l’altro portava nel cuore sin da bambino. A Perugia Giunti imparò ad esempio che un presidente padre e padrone, maestro di bastone e di carota, era capace di farsi odiare da una squadra a bella posta imponendo fior di ritiri pur di vincere. Imparò che un misconosciuto croato di nome Milan Rapajc, arrivato in ritiro con un po’ di pancetta e poca voglia di allenarsi, tempo un mese era in grado di fare la differenza in serie A e che anche con i compagni bisognava andare oltre le apparenze. Imparò, soprattutto, da Novellino, Castagner e Galeone ciò che bisognava fare per far giocare bene una squadra, per farla attaccare e per farla difendere al meglio. E da altri anche ciò che non bisognava fare, vedasi la lunga serie dei clamorosi errori commessi da Scala a dispetto dei santi nell’anno della retrocessione: la nuova preparazione atletica a metà stagione ad una squadra che correva fortissimo, la rinuncia alla classe di Allegri, la difesa a cinque con uomini a dir poco inadatti, Gautieri disinnescato nel ruolo di terzino, persino l’incomprensibile ritorno dello stesso Giunti a fare la mezz’ala e via così discorrendo. Altro che Piacenza.

UNDICI ANNI DA GRANDE
Ma se del Federico perugino sappiamo tutto o quasi, appunto, di quello che andò in giro per il mondo negli undici anni successivi si conosce soltanto a grandi linee. Ed è lì, proprio quelle undici stagioni che bisogna approfondire, è li che Federico acquisì i prodromi delle sue attuali, sorprendenti convinzioni calcistiche, integrate grazie ad altri maestri. Maestri che si chiamano Sacchi, Zaccheroni e Mazzone oltre all’importantissimo Lucescu.

DA ANCELOTTI A ‘ZAC’ E CARLETTO
Ormai impostato da regista classico davanti alla difesa, Federico venne ceduto al Parma da Gaucci per svariati miliardi e la sua avventura non iniziò benissimo. Nonostante i consigli di un certo Arrigo Sacchi, fu protagonista di una stagione non eccelsa con Ancelotti e di sei mesi ai margini l’anno dopo con Malesani. Fu così ceduto al Milan, dove in due anni con ‘Zac’, uno che basa il suo modo di giocare soprattutto sul regista, di soddisfazioni se ne tolse parecchie: lo scudetto, il gol all’Inter nel derby, l’esordio in Champions League contro i turchi del Galatasaray. Il trasferimento al Brescia di Roberto Baggio, in quel Brescia, non fu certo un declassamento, anzi. Il suo fu un altro gran campionato ed era in campo contro il Parma nel purtroppo indimenticato giorno della morte di Vittorio Mero. In estate si incrinò il suo rapporto con Carletto Mazzone, che volle nel Brescia Pep Guardiola inducendolo a cambiare ancora aria a gennaio e ad arrivare fino addirittura in Turchia, ad Istanbul, nel Besiktas di Mircaea Lucescu per una stagione di caratura internazionale condita dalla vittoria nel campionato turco.

LA SVOLTA DI LUCESCU
Una tappa fondamentale, quella turca, per la sua formazione da futuro allenatore. Federico associa la sua gran tecnica ad una presenza quasi asfissiante in mezzo al campo: quantità e qualità vanno di pari passo e si fondono in un’unica figura carismatica anche vicino a grandi nomi come quelli del portiere colombiano Oscar Cordoba, vecchia conoscenza perugina, dell’ex Roma Zago, del trequartista indigeno Ilhan Mansiz . Già, perché se grazie a Castagner aveva avuto modo di acquisire la capacità di far rendere al meglio i giocatori in base alle caratteristiche, se da Galeone aveva recepito la capacità di fare arrivare una squadra al tiro in tre tocchi, se da Novellino e Mazzone aveva imparato quanto fosse importante avere prima di tutto una grande fase difensiva, fu proprio dall’ex allenatore della Fiorentina che arrivò l’illuminazione: tutti quegli elementi apparentemente incompatibili potevano essere fusi insieme in una squadra duttile e capace di cambiare atteggiamento a seconda delle partite e delle situazioni.
Questo era Lucescu e con lui furono preziosissimi i mesi di apprendistato, in campo e fuori. Poi, il 20 novembre del 2003, a Istanbul, esplosero due furgoni bomba davanti alla Hasbc, la più grande banca del Regno Unito in Turchia. Cinque giorni prima un altro attentato aveva devastato due sinagoghe. Federico, che con la sua famiglia si trovava a poche centinaia di metri dalla banca, si spaventò soprattutto per la moglie Giada e la figlia Greta e le rispedì a casa, a Città di Castello, per poi decidere a malincuore di seguirle in Italia. Precisamente ripartì da Bologna, dove ritrovò Mazzone e un rapporto che nel frattempo era tornato ad essere saldo. Il Sor Carletto in realtà a lui non non avrebbe mai rinunziato nemmeno a Brescia e su di lui, sulla sua classe innata, sulla sua intelligenza calcistica e ora anche sulla sua esperienza internazionale, puntò nuovamente ad occhi chiusi. L’anno dopo Federico passò al Chievo Verona dove rimase per tre stagioni con Pillon, Delneri e Iachini e arrivò anche a conquistare un posto in Europa, prima di chiudere la carriera a Treviso. Tutte le tappe della sua lunga e scintillante carriera da calciatore hanno avuto una grande importanza, anche quelle negative.

PRIMI PASSI IN PANCHINA
Proprio quanto gli è accaduto anche da allenatore. A Città di Castello ha allestito una prestigiosa scuola calcio, la Federico Giunti-Milan Academy che ancora oggi è attiva e prospera, ma il richiamo del campo e del calcio vero non ha esitato a farsi sentire. Così da allenatore è partito proprio dalla sua Perugia, dove nel 2009 gli furono affidati gli Allievi Nazionali, quindi ha guidato la Berretti del Foligno, il Castel Rigone dove vivette l’incredibile vicenda dell’esonero al terzo posto in classifica da parte di Cucinelli, il Gualdo Casacastalda, ancora il Foligno e infine la Maceratese, salvata a forza di bel gioco e risultati in una stagione irta di difficoltà pre-fallimentari, senza stipendi né gratificazioni. Prima di Perugia in otto anni ha collezionato tre esoneri, un 10′, un 12′ e un 15′ posto tra serie D e Lega Pro. Mai fidarsi del solo curriculum per scegliere un allenatore, così come mai fidarsi delle sole apparenze per giudicare un uomo, proprio come hanno fatto Goretti e Santopadre. Federico ha preso un pezzetto da ogni maestro e poi ha saputo metterci del suo e oggi comincia a raccogliere i risultati della lunga semina. La lunga storia di Federico Giunti e del suo Perugia ha già vissuto capitoli importantissimi con tre promozioni e ‘Un Grifo all’altezza del cuore’ (come da titolo del libro biografico del giornalista maceratese Giovanni Giacchi). Ma l’impressione forte e nitida è che i capitoli più importanti devono essere ancora scritti.

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