di Matteo Latini - IoGiocoPulito.

Di Gigi Radice non se ne sentiva parlare da tempo ed era fin troppo scontato che, quando si sarebbe tornato a farlo, non sarebbe stato per lieti eventi. Era malato da tempo, Radice. L’alzheimer aveva iniziato a fare il suo sporco lavoro diversi anni fa, divorandogli i ricordi con l’opera subdola che solo quella malattia sa fare. Lo disse al mondo il figlio, Ruggero, in un’intervia a “Il Giornale”, nel 2015. L’anestesia per un intervento all’anca aveva finito col peggiorare tutto, nonostante le immagini granata qualcosa gli smuovessero ancora, insieme alle carezze della signora Nerina, che il suo Gigi non l’ha mai abbandonato.

Come nei film, Radice ha scelto di aspettare il suo Toro. C’era una partita da rispettare, bisognava aspettare finisse, prima di salutare tutti. E l’intero mondo del calcio si è come bloccato. Succede questo quando se ne vanno gli uomini veri, quelli che stimi a prescindere della tuta che indossano. E Radice è stato trasversalmente amato e rispettato: il destino di chi parla schietto e cammina a schiena dritta. Uomini nel calcio, più che uomini di calcio.

Gli inizi al Milan

Radix al campo vi aveva dedicato una vita, da una parte all’altra di quella barricata che divide gli scarpini dalla panchina. Da calciatore aveva iniziato a fare sul serio nel ’53, prelevato dal Milan appena diciottenne, dopo i primi calci tirati nella sua Cesano Maderno, in piena Brianza. Centrocampista, mediano di gamba e corsa. L’infaticabile che recupera il pallone per gli altri e ne mette al servizio i polmoni. In prima squadra vi arriva sotto la gestione Puricelli, l’ex testina d’oro del Bologna scudettato, ormai dirottato alla panchina. Ma la concorrenza è troppa e troppo serrata, Radice finisce per recitare il ruolo da comprimario. Vince due scudetti, ma di presenze di accumula poche anche agli ordini di Gipo Viani, poi nel 1959 cambia casacca. Scende in B e va a Trieste, lì le cose iniziano a girare. 31 presenze, la maturità calcistica. Quando l’anno dopo passa al Padova, non sono ritrova la Serie A, ma incontro anche Nereo Rocco, che all’Appiani guida una banda tutta contrasti e fatica. Inevitabile che tra i due scocchi qualcosa, impossibile che, quando la stagione successiva il Paron prenderà le redini del Milan, voglia portarsi dietro proprio Radice, ormai ventiseienne e pronto a prendersi un posto anche a casa sua.

Il ritorno al Milan

Insieme a Rocco, Gigi Radice ritrova una squadra zeppa di stelle. Si ritaglia un posto in mediana, davanti a Cesare Maldini e Giovanni Trapattoni, faticando per Dino Sani, José Altafini e Alcides Ghiggia, quello che aveva fatto piangere il Maracanà e costretto a una fine solitaria Moacir Barbosa, lo sfortunato portiere che da lui aveva subito il gol costato più suicidi nella storia. In quella squadra conosce anche Paolo Barison, ma il destino li legherà veramente solo qualche anno più tardi. In quel Milan, i due sono solo compagni di squadra e Radice è un gregario di lusso. Ne gioca 28, segna anche quello che rimarrà il suo unico gol in rossonero, al Catania. Vince il suo terzo scudetto, questa volta da protagonista, e l’anno dopo darà scacco anche alla Coppa dei Campioni, anche se nella notte di Wembley Nereo Rocco un posto proprio non era riuscito a trovarglielo. Per Radix si schiudono anche le porte dell’azzurro, con Edmondo Fabbri, ma l’incantesimo dura poco. Nel ’63 il ginocchio si rompe e in ordine non tornerà più. Radice salta una stagione per intero, ci riprova l’anno seguente ma racimola solo tre partite: la strada ormai è segnata. Nel 1966 appende gli scarpini al chiodo, ma senza calcio resta poco. Da giocatore ad allenatore il passo è breve, vicino alla Milano che lo aveva visto calciatore e in quella Brianza che gli aveva dato i natali. Lo chiama il Monza e da lì il futuro prende forma. Sono i meandri della C a battezzare il Radice tecnico, che fiuta le qualità di un giovane portiere, Luciano Castellini, lanciandosi verso la promozione di una Serie B successivamente difesa. Poi Treviso e ancora Monza, fino alla chiamata del Cesena, nel 1971. A volerlo è il presidente Dino Manuzzi, l’obiettivo dichiarato è la A e per raggiungerla basta attendere una manciata di stagioni. Al primo anno, Gigi Radice getta le basi, crea il gruppo. Arriva 6° e in estate aggiusta il tiro, poggiando la squadra sulle spalle di Claudio Mantovani e sui gol di Ariedo Braida e nel ‘72/’73 la cavalcata è trionfante, chiusa solamente dietro al Genoa di Arturo Silvestri, con la miglior difesa. È un piazzamento che vale il salto di categoria, ma a impennarsi è anche la carriera di Radice.

L’arrivo alla Fiorentina

In estate il telefono squilla da Firenze, la viola lo vuole. Squadra giovane, da far rodare: Radix risponde presente e vola alla corte di Ugolini. Sulle rive dell’Arno, Radice si ritrova un manipolo di giovani da svezzare e delle quali ne intuisce le qualità. Lancia Vincenzo Guerini, Giancarlo Antognoni e Mimmo Caso. L’esperienza se la prende invece da Franco Superchi e Giancarlo De Sisti. Ed è una chimica che sembra funzionare. Nel girone d’andata, la Viola gioca e impressiona, facendo corsa da grande. Stoppa il Milan a San Siro, batte la Juventus di Vycpálek e l’Inter di un Mago Herrera ormai al canto del cigno. Anche la Lazio di Tommaso Maestrelli, poi scudettata, coi gigliati litiga e strappa solo due pareggi. Peccato l’incantesimo si rompa nel ritorno, tra i capitomboli di Foggia e Napoli, le sconfitte con Cagliari e Lanerossi. Alla fine sarà solo sesto posto, un punto sotto al Torino e dall’Europa. Basta quell’unica lunghezza a decretare la separazione.

Gigi Radice resta senza squadra, passa l’estate da turista ad aspettare. La chiamata tarda, oltrepassa l’autunno, ma a dicembre eccola arrivare. Lo vogliono a Cagliari, dove fino a quel momento Giuseppe Chiappella ha raccolto appena 6 punti. Troppo poco per il presidente Arricca, che punta sull’ex viola per rincorrere la salvezza. E sull’isola Radice fa ancora meglio, nonostante i gol arrivino ormai da Sergio Gori e non da Gigi Riva. Eppure il Cagliari riprende a marciare, batte negli scontri diretti l’Ascoli, strappa punti anche a Roma e sulla sponda bianconera di Torino. Pareggia tanto, ma raggranella punti e alla fine sarà 10° posto, sufficientemente oltre la terzultima posizione.

Gigi Radice al Filadelfia

È una piccola impresa che varca i confini isolani e piomba sotto gli occhi di Orfeo Pianelli, che per il suo Torino è a caccia di un allenatore e lo ha visto proprio in Radice. Il presidente ancora non sa che pagine di storia sta per scrivere. Gigi Radice mette piede al Filadelfia nell’estate del ’75, dove lo spirito del Mito non se n’è mai andato, ma intanto c’è una squadra da rimettere piedi. Lì ancora bruciano i fantasmi del 1972, il gol annullato ad Agroppi contro la Samp di un Marcello Lippi che il mediano di Piombino non avrebbe mai perdonato. La mala sorte in dote ai tifosi granata, con l’amore pesante tanto quanto la sfortuna. Il dolore come compagno di viaggio, capace di portarsi via Mazzola e compagni a Superga e spezzare la vita di un altro Gigi, Meroni, sul cofano della macchina di chi del Toro sarebbe poi stato presidente. Radice riparte da un 6° posto in campionato, gli addii di Aldo Agroppi e Giorgio Ferrini: il primo è stato ceduto al Perugia, il secondo invece ha deciso di smettere, ma il granata ce l’ha troppo nel sangue per non restare come secondo nel nuovo tecnico. Però di materiale ce n’è, soprattutto in avanti. A furia di battimuro, è finalmente esploso il talento di Paolo Pulici, la cui spalla naturale è Ciccio Graziani. Poi l’estro di Claudio Sala e la solidità di Renato Zaccarelli, mentre in porta c’è quel Luciano Castellini lanciato proprio da Radice negli anni di Monza. Sul mercato, poi, dal Bologna arriva la freschezza di Eraldo Pecci e da Vicenza i muscoli di Fabrizio Gorin. Dal Monza, invece, un altro Sala, Patrizio, che di Claudio non ha i piedi ma più polmoni sì. Merce rara, che Gigi Radice deve tessere. Lo fa con la modernità che conosce, le idee calcistiche olandesi che ormai hanno varcato ogni confine. Radix è un grande uomo, ma il tecnico non gli è da meno. Organizzazione pressing, centrocampo a tre e fantasia davanti. Il tutto mescolato a regole ferree ed empatia con una squadra che ne segue a bacchetta ogni dettame. I giocatori li porta in ritiro il giovedì, ne controlla la vita un po’ da papà e un po’ da fratello maggiore. I risultati arriveranno, nonostante l’inizio sarà vacillante.

Lo scudetto granata 1976

Il Toro esordisce a Bologna e stecca, ma alla seconda Pulici è già in formato super e fa tripletta. Segue il successo su Inter e Napoli, la ricorsa a una Juventus che i granata si trovano davanti il 7 dicembre. Pupi entra in campo pulendosi al solito gli scarpini su una bandiera bianconera posta sotto al Maratona, poi preso dalla tensione strappa anche un tiro di Nazionali senza filtro a un tifoso che è lì sulla pista d’atletica. Storie d’altro calcio e di un derby che apre Graziani e chiude proprio Pulici. E il Torino sembra non fermarsi più. Vince col Milan e resta a ruota fino alla stracittadina di ritorno, dove il Toro vince due volte: prima sul campo, poi a tavolino, perché Castellini viene colpito da un petardo al ritorno negli spogliatoi  e nel secondo tempo è costretto a dare forfait. Significa sorpasso, un primo posto che resiste a tutto, fino al 16 maggio, Torino-Cesena: la vita di Radice è tutto un ricorso storico, cerchi su cerchi da aprire e chiudere. L’ultimo atto, un pareggio, con Pulici che si butta sotto le suole dei difensori romagnoli. Tanto basta, mentre a Perugia l’ex Agroppi blocca la Juventus. Il Comunale impazzisce, mentre Gigi sembra masticare amaro per l’1-1: avrebbe voluto fossero solo vittorie, lì in casa sua. Lo scioglie solo l’abbraccio di Luciano Castellini, in lacrime, che quel piccolo e immenso uomo sembra quasi farlo scomparire.

L’incidente con Paolo Barison

Lo scudetto gli vale il premio di Seminatore d’Oro e l’amore imperituro di un popolo che quel titolo l’aveva aspettato per quarant’anni e troppi dolori. Radice resta e fa ancora bene, miete un 2° e un 3° posto, piange la scomparsa di Giorgio Ferrini. Ma il ciclo Pianelli è ormai agli sgoccioli, i poteri forti respingono indietro il Toro. Ad aprile del ’79, poi ci si mette anche la sorte. Gigi Radice è in macchina, accanto ha l’amico Paolo Barison. La Fiat 130 Coupé viaggia in direzione Genova, quando all’altezza di Andora un camion sulla corsia opposta sbanda, sfonda il guardrail e investe tutto ciò che trova. Barison muore sul colpo, Radice si salva per miracolo. Perde un dito, ma soprattutto qualcosa dentro. Oltre all’amico, se ne va via un pezzo di lui. Torna in sella, ma a febbraio dell’80 gli presentano il conto per un’annata storta. La ferita gli resterà dentro, come dirà qualche mese dopo in un’intervista. “Pensavo ormai di essere in famiglia, ci dicevamo tutti insieme che anche le eventuali intemperie le avremmo superate senza traumi, discutendone serenamente. Poi ai primi accenni di burrasca mi cacciano via e mi fanno sentire un allenatore qualunque, cinque anni di affettuosa collaborazione spazzati via perché si erano perdute un paio di partite in più”.

Gigi Radice a Roma

Ma in granata ci tornerà eccome, Radice: uomo che viene, va e all’amore non sa negarsi. Gira per Bologna e il Milan ante era Berlusconi. Passa anche per la sponda nerazzurra di Milano, poi nel 1984 è Sergio Rossi a richiamarlo al Fila, per affidargli un Toro che ormai ha cambiato gli idoli in Junior, Dossena e Serena. È un incantesimo che dura altre cinque stagioni, due presidenti e un secondo posto. Borsano lo esonera a dicembre ’88 e questa volta di lì non ripasserà più. Va invece a Roma, chiamato dal presidente Dino Viola, per una mozione dei sentimenti. Le casse sono vuote, l’Olimpico in rifacimento per i Mondiali delle Notti Magiche. Il presidente vira sul Flaminio, al tecnico affida una squadra che deve battagliare. Sotto la guida Radice ne viene fuori una delle stagioni che nessuno si è ancora dimenticato: un tutt’uno tra squadra e tifoseria, in uno stadio che ribolle ed esplode il 18 marzo 1989, quando Rudy Voeller stende la Lazio nel derby. Appena una domenica prima, la Sud aveva esposto una striscione chiaro: un uomo solo al comando, con un undici leoni al suo fianco, la sua maglia è giallorossa, il suo nome Gigi Radice. Il giusto tributo al condottiero di una squadra che chiuderà sesta, con la targa consegnata dalla curva all’uomo che in casa non s’era arreso neanche al Napoli di Maradona.

Per Radice è anche il canto del cigno. Eppure continua a girare e dà vita a un altro ritorno, stavolta a Firenze, dove lancia il primo Batistuta e incassa un esonero da secondo in classifica. Poi ancora Cagliari, Genoa e l’ultimo cerchio da chiudere, a Monza, dove tutto era iniziato. Chiamato in corsa, nel ’97, riporterà i brianzoli lì dove li aveva lasciati: in Serie B.

La malattia sarebbe arrivata da lì poco, aggredendogli i ricordi e fiaccandone la mente. L’onta peggiore, per chi di storie da raccontare ne aveva zeppo il cuore e strabordanti i cassetti. Resta la memoria di chi l’ha visto, conosciuto e studiato.

Lì Gigi Radice ancora non se n’è andato. Né se ne andrà mai.

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