di Elio Clero Bertoldi
PERUGIA - Francesco d'Assisi (1182-1226) ha compiuto, tanto più per l'epoca in cui visse, lunghi viaggi, non solo su e giù per l'Italia, ma anche all'estero, come quando arrivò in Palestina ed in Egitto, a Damietta per incontrare il sultano Malik al Kamil. Aveva programmato pure un viaggio in Francia, ma per motivi "politici" fu fermato, prima di entrare nella terra della madre Madonna Pica (provenzale; il padre Pietro Bernardone era un commerciante agiato di Assisi) dal cardinale Ugolino dei conti di Segni, protettore del movimento francescano, poi papa Gregorio IX. 
Il fraticello si spostava sempre senza bagaglio, affidandosi alla provvidenza e rigorosamente a piedi, tanto che è invalso il modo di dire nelle campagne umbre, per chi si muove con le proprie gambe, che ha usato "il cavallo di San Francesco".
Nell'ultimo viaggio, tuttavia, fu costretto a salire su una cavalcatura per coprire quei circa trenta chilometri, per un percorso molto disagevole, tra Bagnara di Nocera Umbra, sull'Appennino Umbro-Marchigiano e Assisi. Costretto non solo perché il fondatore del francescanesimo risultava gravemente ammalato, ma anche perché quell'azione fu un vero e proprio rapimento, organizzato ed attuato dalle autorità civili e religiose di Assisi. Operazione decisa e compiuta "per ragion di Stato". 
Estate del 1226. Francesco, che da un paio d'anni ha ricevuto le stimmate  sulla Verna, in Toscana, si è portato prima a Siena e subito dopo a Cortona, nell'Eremo delle Celle, per curare con le acque termali le sue gravi malattie: l'idropisia, la cecità, il mal di fegato, di milza, di stomaco. Uno dei suoi compagni, fra' Masseo, gli consiglia l'aria della propria terra, nella zona del Monte Pennino a poche centinaia di metri dalle fonti del Topino: le grotte di Sant'Angelo di Bagnara di Nocera Umbra, zona ricca di acque anche termali e con l'aria fresca e pulita di montagna, non come quella pesante, irrespirabile, malsana, tanto più d'estate, dei territori paludosi della Val di Chiana, sotto Cortona.
Il "poverello" si reca, dunque, nel nocerino. Le condizioni di salute di Francesco continuano, tuttavia, a deteriorarsi e i suoi compagni temono che la morte del loro fondatore sia ormai imminente. La notizia si diffonde subito anche ad Assisi. Dove sia le autorità civili, sia il vescovo ed il clero cittadino mostrano una preoccupazione fortissima e solidissima, un vero e proprio timore: che cioè la salma del santo possa entrare in possesso di altre città, di altri stati. E nel Medioevo, questi sentimenti risultavano particolarmente sentiti, cogenti.
Così si decide, con palazzo dei Priori e Vescovado in piena sintonia, di inviare "una ambasceria autorevole" al fraticello, già in vita considerato un santo, per prelevarlo e portarlo tra le mura cittadine. Tommaso da Celano - e non solo lui - lo scrive chiaramente nella "Vita secunda": "Non si voleva lasciare ad altri la gloria di possedere il corpo dell'uomo di Dio". Fu per questo scopo che da Assisi partì una "cavalcata" - termine che in gergo militaresco dell'epoca stava per raid, scorreria, incursione, scorribanda per "guastare" i raccolti dei nemici - che coprì, attraverso Armenzano, Costa di Trex, Pian della Pieve, Villa Postignano, La Romita di Nocera fino a Bagnara, il percorso di una trentina di chilometri, particolarmente arduo tra forre, dirupi, terreni sassosi, torrenti tortuosi. Sulla strada del ritorno, avendo al seguito un malato grave, il gruppo fece sosta sul far della notte a Satriano. Qui Bonaventura da Bagnoregio nella "Leggenda Maior", narra un episodio. I cavalieri cercarono di acquistare cibi per rifocillarsi, ma per quanto denaro offrissero ai paesani, non ne ottennero. Tornarono a mani vuote da Francesco, che lì invitò a farsi umili ed a non offrire le "mosche" (così definiva il denaro), ma ad elemosinare le offerte per amore di Dio. E, in effetti, la popolazione a quel punto avrebbe consegnato ai questuanti quanto avevano rifiutato per i soldi.
Che gli assisani tenessero in maniera determinatissima ad avere il corpo del santo, lo dimostra anche un ulteriore particolare: per alcuni giorni Francesco non solo venne ospitato nel vescovado, in pieno centro storico, ma intorno al palazzo vennero piazzate pure guardie armate che vigilassero perché a nessuno venisse in mente di portarsi via il "prezioso" fraticello, che la comunità non intendeva perdere, in modo assoluto. Tanto più da morto.
Solo nelle ultime ore di vita venne concesso a Francesco di spostarsi dove tutto era cominciato: la Porziuncola a Santa Maria degli Angeli. E qui, la notte tra il 3 ed il 4 ottobre, si consumò il "transito" o la "dormitio", cioè la morte terrena del "poverello".
Raccontano le fonti che prima di esalare l'ultimo respiro Francesco avesse fatto chiamare accanto a sé i compagni Angelo e Leone, entrambi in possesso di una bella voce intonata, perché gli cantassero il "Cantico delle Creature" in cui aveva scritto, tra l'altro, "Laudato si', mi' Signore,/per sora nostra morte corporale/da la quale nullo homo vivente po' scappare".
Nella "Leggenda perugina", l'anonimo cronista, riporta un altro interessante particolare e che cioè Francesco avesse pregato di avvertire Jacopa de' Settesoli, della potente e aristocratica famiglia romana dei Frangipane, vedova e religiosissima, perché gli portasse un saio di ricambio e le lecornìe, che lei offriva all'ospite assisano ogni volta che scendeva a Roma: i "mostaccioli", dolcetti fatti di miele, zucchero e mandorle. I latori della richiesta non avevano fatto in tempo a partire, che la pia donna arrivò alla Porziuncola, "motu proprio" ("l'ho sognato", spiegò), proprio con tutte le cose che il "poverello" aveva chiesto gli fossero recate. E così Jacopa fece in tempo a dare l'ultimo saluto terreno a Francesco. 

 

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