di Stefano Fassina

Caro direttore,

oramai, domina la rassegnazione alla guerra in Ucraina, ai suoi morti, alle distruzioni. Finanche l’indifferenza. Un rumore di fondo. Anzi, l’escalation militare sempre più preoccupante viene celebrata come conferma della dirittura morale e della determinazione dei “buoni”. Nulla da discutere. Si va avanti con il pilota automatico per far trionfare il “bene” contro il “male”. La fotografia della fase l’ha fatta Mauro Magatti in un editoriale su questo giornale qualche giorno fa: «Il mondo sta ballando sul Titanic e nessuno sembra avere la chiave dell’uscita ». Come sul Titanic, mentre si va verso l’iceberg, il pubblico viene intrattenuto dall’intervento di Volodymyr Zelensky nel nostro festival nazionale della canzone.

Dopo 11 mesi di guerra, in totale assenza di iniziative diplomatiche, classi dirigenti responsabili avvertirebbero la necessità di promuovere le ragioni del negoziato, senza nessuna ambiguità sulle colpe incancellabili dell’aggressore. Quindi, in una democrazia, sentirebbero l’urgenza di coinvolgere l’opinione pubblica in un discorso meno propagandistico e più consapevole dei rischi nucleari o, nel migliore dei casi, delle sempre più gravi conseguenze economiche e sociali di una lunga guerra di attrito. Invece, nel suo programma di massimo ascolto, tra una canzonetta e una battuta del comico di turno, la tv di governo, piuttosto che di Stato, ospita il presidente Ucraino che, per funzione, non può che spingere per la guerra a oltranza e l’invio di armi ancora più potenti e raccontare come tradimento ogni iniziativa che eviti l’annientamento del nemico invasore.

In tale contesto, è sostanzialmente passato come routine il voto del Parlamento italiano per la conversione del decreto legge per l’invio delle armi a Kiev. Del resto, si è trattato della proroga delle norme varate dal governo Draghi il giorno dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa. Così, in assoluta continuità con le disposizioni decise “a caldo”, la scelta delle armi da inviare, come fossero generi di prima necessità per un’emergenza umanitaria, avviene con un mero atto ammini-strativo: «Con uno o più decreti del ministro della Difesa, di concerto con il ministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e con il Ministro dell'Economia e delle Finanze sono definiti l'elenco dei mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari oggetto della cessione. Il Parlamento non è coinvolto e il Presidente della Repubblica non firma. Come nella normativa di fine febbraio scorso, è previsto soltanto «un atto di indirizzo delle Camere»: un atto, come è avvenuto finora, assolutamente generico per «l’impegno al sostegno dell’Ucraina. L’unica attenzione all’epicentro della nostra democrazia, al suo potere deliberativo, è un’informativa secretata del ministro della Difesa al Copasir.

La decisione del Parlamento italiano di continuare ad auto-emarginarsi dalle scelte a più elevata intensità politica possibile contraddice la nostra democrazia costituzionale, oltre che la prassi seguita da tutte le altre assemblee legislative dell’Occidente. Il richiamo giustificativo al comportamento osservato nella scorsa legislatura è irricevibile. Allora, eravamo alla fase iniziale dell’invasione. Si riteneva necessario e urgente garantire il diritto alla difesa dell’invaso. Ora, lo scenario è da brividi. Siamo a un salto di qualità nel coinvolgimento diretto della Nato. Nelle stesse ore in cui i nostri deputati votavano la loro auto-marginalizzazione, il Governo Scholz capitolava sull’invio dei carri armati “Leopard 2”, dopo aver ottenuto la “copertura” dall’invio di mezzi analoghi dalla Casa Bianca. Autorizzati i carri armati, si intensificava la discussione nei principali governi europei, oltre che a Washington, sull’invio di jet a Kiev. In completa assenza di iniziative per il cessate il fuoco da parte degli Usa e della Ue, un’altra delle linee rosse, tracciate a inizio del conflitto per scongiurare la catastrofe nucleare, rischia di essere oltrepassata.

L’auto-emarginazione delle nostre Camere avviene nonostante le implicazioni di portata storica della guerra combattuta sempre più “per procura” in Ucraina: l’accelerazione della de-globalizzazione e il riassetto dell’ordine politico internazionale; il tramonto di qualsivoglia possibilità di soggettività politica e di difesa autonoma dell’Unione Europea con lo spostamento verso il “blocco sovranista” del suo baricentro politico; l’ulteriore impoverimento del lavoro, aggravato da una Bce indifferente all’economia di guerra.

In conclusione, l’auto-esclusione del Parlamento per un anno durante il quale in Ucraina e dintorni può accadere di tutto, votata anche da quel centrosinistra sempre pronto a denunciare la “fiamma” ancora ardente tra i Fratelli d’Italia oggi a Palazzo Chigi, è un fatto politico enorme. È, anche, seria e profonda la spaccatura nell’area progressista: da una parte il M5s e Sinistra Italiana, dall’altra il Pd, con Azione e Italia Viva (in mezzo, la sorprendente astensione di Europa Verde). I movimenti, i sindacati e le associazioni scese in strada il 5 novembre scorso dovrebbero tornare in campo per ricordare, innanzittutto ai nostri decisori politici, i loro compiti costituzionali.

Fonte: Avvenire.it

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