di Fausto Bertinotti

 

Il centenario della nascita del Partito comunista in Italia sta diventando l’occasione per una riflessione politica, sino a ora mancata, e non casualmente, a sinistra. Così le questioni irrisolte e depositate nelle memorie e nella storia del Paese sono davvero tante e alcune di esse pesanti come macigni. Tre mi sembrano quelle capitali. A partire dal perché è nato in Italia un partito comunista e se la scissione dal Partito socialista, da cui ha preso vita nel 1921 a Livorno, è stato un bene o un male per le sorti del Movimento operaio e del Paese. Un’altra questione riguarda la natura stessa del partito e la sua influenza sulla storia d’Italia. Essa può andare sotto il nome di “doppiezza”. Si tratterebbe di sapere se c’è stata e, se sì, quale sia stata la sua conseguenza. Un problema enorme e del tutto irrisolto riguarda la fine stessa del Partito comunista, le cause che l’hanno prodotta. La questione è tanto più rilevante, in quanto essa si colloca da protagonista – io penso in senso negativo – nella transizione che segna la fine del dopoguerra e del caso italiano.

Con la definizione del “caso italiano” si è voluto descrivere l’ultimo tentativo di grande riforma che è stato messo in atto nel Paese. Da questa cesura drastica, con quello che è avvenuto poi fino ai nostri giorni, si può intendere tutta la portata dell’interrogazione sulla fine del Pci, come della sua nascita e della sua vicenda intera. Si configurerebbe infatti così un programma di ricerca molto impegnativo per gli storici, gli studiosi e gli intellettuali, dovendo per questa via indagare un passaggio cruciale dell’intera storia di un Paese che è anche, nel contempo, la storia di un secolo intero, il Novecento. Con lo sguardo del militante si può essere più indulgenti e accettarne le semplificazioni. Si può in questo caso dire che il problema della nascita, che in quel momento si poneva come problema reale, sia stato poi risolto dalla storia che ha visto quella rottura generare il più grande partito comunista dell’Occidente. Non convince la sua cancellazione da parte di chi vuol collocarne la nascita successivamente. La storia del Pci è una sola e parte dal 1921. Non nasce, come vorrebbe una pure autorevole interpretazione, dal Congresso di Lione nel ’26, quello realizzatosi sul documento politico elaborato da Antonio Gramsci. Questa è stata certo una tappa molto importante, come lo è stata poi la svolta del partito di massa voluto da Togliatti dopo la vittoria contro il nazifascismo. Ma tutto questo non cancella l’evento del ’21 e ciò che da lì è entrato nelle vene del partito e che è nientemeno che il tema della rivoluzione.

È stata la necessità di mettere questa prospettiva al centro della politica a produrre la scissione. Si può dire anzi che perciò la grande scelta sia stata necessitata. La divisione del Movimento operaio si era già prodotta sul piano teorico, e poi drammaticamente su quello pratico, in Germania. Ebbe inizio nel Bernstein-Debatte e nello scontro tra il suo protagonista e Rosa Luxemburg. Il ’17 radicalizza la divisione. I bolscevichi invocano la rivoluzione nei paesi europei, convinti che senza di questa anche l’ottobre russo sarebbe stato condannato. Quella chiamata è, per una parte del Movimento operaio irrifiutabile, come conferma poi anche la nascita del Partito comunista francese. Ma, ad esempio, per gli ordinovisti è più direttamente la dinamica sociale nel Paese a reclamare la rivoluzione, tanto che sarà proprio Gramsci da Torino a chiedere al Partito socialista la programmazione dell’insurrezione e la distribuzione delle armi agli operai, gli operai delle occupazioni delle fabbriche e dei consigli. Gli operai del contropotere in atto che rivendica il passaggio alla conquista del potere sono i profeti disarmati della scissione. Lo sono dopo il loro abbandono colpevolmente realizzato da parte del Partito socialista. La scissione di Livorno ne è la consumazione, come sembra confermare anche la partecipazione silenziosa di Gramsci al congresso di fondazione. La scissione porta con sé nel partito nascente la scintilla della rivoluzione. Nella storia del Pci, soprattutto in quella del lungo dopoguerra italiano e nel mondo diviso in due blocchi contrapposti, quella scintilla continuerà a vivere sebbene senza diventare mai la strategia generale del partito. Qui sta la sua doppiezza. Essa non risiede nel problema della democrazia e più specificatamente in quello della democrazia rappresentativa. Con la Repubblica, il Pci diventa il partito della Costituzione e un partito di popolo. Il legame con l’Urss, pur su molti aspetti influenti, sia su di sé che ancora più negativamente sui suoi avversari politici e sulla borghesia, su questo terreno quel legame risulta del tutto sterilizzato. L’opzione del partito è netta e radicale, come bene si evince ancora dagli scritti di Terracini pubblicati di recente. Nell’indicatore costituito dalla storia sociale, a questo proposito risulta del tutto chiarificatrice la scelta compiuta dal Pci e dalla Cgil di Di Vittorio nei confronti delle lotte operaie e del triangolo economico nell’immediato dopoguerra, una scelta volta a spegnere sul nascere ogni fuoriuscita dall’ordinamento costituzionale e dagli esiti politici generati dalla democrazia rappresentativa. Sono state scelte così nette da subire critiche da sinistra e non del tutto prive di fondamento. La divisione tra riformisti e rivoluzionari, e la stessa definizione di entrambi, dovrebbe indurre oggi a una riflessione meno partigiana. Oggi, che questa polarizzazione è diventata inattuale per la scomparsa dalla scena della politica di entrambi i poli della contesa.

Lo scontro originario collocava i due partiti sul fronte opposto della scelta, della via per raggiungere la meta. Da una parte stava quello della rottura rivoluzionaria e dall’altra quello del processo graduale di conquiste sociali. La meta dichiarata restava in quel caso per entrambi la stessa. La meta veniva infatti individuata proprio nel socialismo, come testimonia anche il discorso di Turati a Livorno. Nel dopoguerra delle costituzioni democratiche, dei partiti di massa e del sindacalismo confederale di classe, i due termini, riformista e rivoluzionario, subiscono una sostanziale riscrittura. La pietra d’inciampo è, se vogliamo, Bad Godesberg, con l’abbandono da parte della Socialdemocrazia tedesca del tema della fuoriuscita dal capitalismo e con il suo rifiuto del marxismo. Si può dire che la distinzione tra riformisti e rivoluzionari diventa quella tra chi pensa che le riforme possano e debbano avvenire all’interno della società capitalista, e chi pensa invece che quelle siano incompatibili con il capitalismo e che, dunque, proprio la società capitalistica sia il problema della politica. La nuova discriminante, cioè il superamento del capitalismo, propone schieramenti assai diversi dalla geografia dei partiti tradizionali. Socialisti e comunisti non si dividono, infatti, secondo questa modalità. Socialisti come Morandi, Basso, Lombardi, Panzieri non stanno infatti certo nel primo dei due campi dove, al contrario, sta di fatto più di un dirigente del Partito comunista italiano. Ma la scintilla di Livorno trattiene il Pci nel campo del socialismo, qui inteso come necessità del superamento del capitalismo. Lo trattiene sino alla concezione delle riforme di struttura, finalizzate a questo stesso obiettivo. Qui, allora, sta la doppiezza del Pci. Non nella coppia democrazia-Unione sovietica. La doppiezza sta, da un lato, nell’immersione concreta nella società italiana esistente, la cui evoluzione concepibile e insieme obiettiva di lotta è il processo di realizzazione della Costituzione. È la democrazia progressiva. Di fatto, alfa e omega della strategia del partito, poi, democrazia tout court. L’altro polo è il superamento del capitalismo, Gerusalemme rimandata ma mai rinnegata. Un obiettivo, dunque, che torna ad affacciarsi nei momenti più acuti dello scontro di classe e in certi passaggi topici della storia del Paese e del mondo. Intendiamoci, l’Urss c’entra parecchio con questa doppiezza, ma non ne costituisce un polo. C’entra, in maniera diversa, nelle formazioni dei gruppi dirigenti del Partito e della sua base.

Biagio De Giovanni ha compiuto su queste pagine un’analisi di grande interesse sulla storia del Pci, sulle ragioni della sua grandezza e sulle cause della sua fine. La tesi e il suo svolgimento costituiscono una sollecitazione ricca, anche per chi non la condivide per intero. Egli individua, con acutezza e anche con qualche condivisibile originalità, le produzioni culturali che hanno formato l’élite che ha diretto il Pci. Essa è infatti un’élite composta socialmente e culturalmente come in nessun altro partito comunista. Basti vedere per il confronto, quello del Partito comunista francese. Ma in quella formazione culturale c’era anche dell’altro e, in primo luogo, il debito riconosciuto, anche con qualche civetteria, a quel realismo politico di una tradizione molto forte nel Paese, che va da certo Rinascimento al Risorgimento di Cavour. Il peso attribuito alla tattica, alla relazione tra partiti, la centralità riposta nelle istituzioni non sono solo il portato di una raffinata cultura politica, sono anche la spia di una mancanza di centralità politica attribuita al conflitto di classe e ai suoi soggetti, appunto, a ciò che spunta ogni volta nella concretezza della contesa fuori da essa e che guarda a un orizzonte esterno al capitalismo. D’altro canto, il rapporto tra il partito e la società è stato così intenso da dar luogo a quel sentimento che Biagio De Giovani chiama significativamente “una malinconia”. Una malinconia per quella ricchezza di umanità andata perduta con la sua fine. Ma questo rapporto sarebbe stato impossibile senza la persistenza della scintilla del ’21, senza la convivenza del realismo della pratica politica della direzione del partito con l’orizzonte della rivoluzione e del superamento del capitalismo in esso inscritto. Oggi vediamo bene, dopo la sua demonizzazione, la forza dell’ideologia. Ed era proprio lì dentro che stava la doppiezza. L’Urss era una potenza in campo, ma anche la società post-rivoluzionaria e il mito che da essa si era formato. Nei gruppi dirigenti essa è entrata prevalentemente per la via del realismo, delle relazioni internazionali. La conferma potrebbe venire da una constatazione. Diversamente da tutti gli altri partiti europei, nel Pci a difendere più a lungo il legame con l’Unione Sovietica è stata la componente che, seppur impropriamente, è stata a volte chiamata socialdemocratica. Basti pensare a un leader come Giorgio Amendola, mentre proprio quella più radicale, nel linguaggio qui proposto rivoluzionaria, ne ha proposto e riproposto la rottura. Basti pensare al processo che ha dato vita al manifesto.

Nella base del partito, l’Urss è entrata come mito, prima l’ottobre, poi Stalingrado, poi il sostegno ai movimenti antiimperialisti e anticolonialisti. Continuo a pensare che il deficit di ricerca sulla rivoluzione in Occidente e in particolare in Europa, e la mancanza di una centralità attribuita al conflitto di classe hanno contribuito a precludere la critica necessaria al modello dell’Unione Sovietica e al distacco da essa. Il distacco, infatti, sarebbe stato necessario, tanto in ragione delle libertà e della democrazia deprivata, quanto in nome della penuria di socialismo esistente in quei partiti, cioè in ragione della costruzione di una nuova prospettiva di liberazione da alimentare in tutta Europa. La doppiezza, questa è la tesi che propongo, anche se la so controcorrente, la doppiezza esistita nel Pci, che è stata sostanzialmente un’ambiguità non risolta, ha svolto un ruolo positivo. Ha funzionato come lievito alla sua crescita e al suo radicamento nella classe operaia, nel popolo e nella società italiana. Dentro e fuori il Pci è stato così possibile per le realtà impegnate su questo fronte interloquire con tutti i movimenti, con tutti i fruttuosi revisionismi ideologici o culturali, che sono venuti crescendo a partire dagli anni Sessanta, nei marxismi critici, nel femminismo, nell’ecologismo. Non la sconfitta della stagione della grande riforma e neppure lo scioglimento del Pci hanno generato da soli l’agonia della politica a cui stiamo assistendo. Questa è prodotta in primo luogo dalla mutazione genetica, definizione lombardiana, che hanno subìto le istituzioni del Movimento operaio e il partito per primo. La fine del Pci vi ha certo contribuito e indagarne le ragioni è dunque necessario. L’unilaterale perdita della doppiezza, con lo spegnimento della scintilla di Livorno, ne è stata a sua volta, una causa fondamentale. L’assalto al Palazzo d’Inverno andava di sicuro sottoposto al revisionismo promosso dalle nuove frontiere critiche, aperte sul capitalismo contemporaneo e suscitato dalle elezioni delle emergenti soggettività critiche, ma la sua sostituzione con Palazzo Chigi, la sostituzione della rivoluzione con il governo, è andata nella direzione opposta ed è stata la fine di una grande storia.

FONTE: Il Riformista

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