di Luciana Castellina

Rossana Rossanda è stata una raffinata intellettuale, una femminista, una giornalista. Così l’ha, con grande deferenza, salutata la stampa di tutto il mondo, un’eco straordinaria. E così l’hanno finita per immaginare anche tanti giovani compagni che sapevano bene che era stata molto importante ma della sua vita conoscevano poco o niente. Ora che Rossana sia stata tutte e tre queste cose al massimo livello è sacrosanto, ma nella descrizione c’è un vuoto che stravolge la sua personalità: il fatto che sia stata una vera militante comunista, un dato tanto più significativo proprio perché “anche” una grande intellettuale. E, vorrei aggiungere, perché non è cosa da poco, è stata anche una delle principali scrittrici della nostra epoca. Che – sebbene fosse inserita nella cinquina finale – non abbia poi ricevuto una quindicina di anni fa il premio Strega per La ragazza del secolo scorso lo considero quasi uno scandalo. Ringrazio Critica Marxista per l’invito a scrivere su di lei che mi ha rivolto perché questa rivista è il luogo adatto per esprimere il mio rammarico – se me lo consentite vorrei dire anzi arrabbiatura – per la riduzione della sua storia che è stata compiuta quasi da tutti i suoi pur affettuosi commentatori. Non ricordare, o meglio non riconoscere, Rossana come militante, significa amputarla di un tratto che l’ha resa per tanti versi unica, quello che le ha dato, per usare le parole (direi purtroppo le sue ultime parole) di Lea Vergine «il suo straordinario carisma». Significa ignorare che è molto raro che un’intellettuale, almeno in una fase non emergenziale, accetti di piegarsi alle fatiche, fisiche ma anche psicologiche, della militanza di base, ma soprattutto sia tanto modesta da accettare che il collettivo conti più del proprio giudizio individuale, nel senso di considerare – non piegarsi per ubbidienza, per carità, non è questo – proprio dovere primario sforzarsi di capirne le ragioni. Già sento l’accusa di veterocomunista, un termine che tuttavia, vi confesso, da qualche tempo vado considerando un complimento, visto la voga ormai dominante in ogni organizzazione: secondo la quale vi si entra e se ne esce, come si attraversasse una porta girevole. Senza nemmeno dar conto delle proprie scelte. Ma torno a Rossana, e cerco di spiegare quanto ho detto ricorrendo anziché a giudizi astratti al concreto della sua vita. Rossana, quando dirigeva la sofisticata Casa della cultura milanese, straordinaria finestra su una cultura europea da cui l’Italia era stata tagliata fuori dall’isolamento cui il fascismo l’aveva costretta, era contemporaneamente e fino in fondo anche una dirigente della Federazione comunista di Milano, una delle organizzazioni più operaiocentriche d’Italia. Quella curiosità che in Rossana è rimasta tutta la vita e che la portava a chiedere innanzitutto, ovunque andasse, quale fosse la situazione in questa o quella fabbrica del terriLA COMPAGNA ROSSANA Luciana Castellina laboratorio culturale Luciana Castellina 44 torio, e così a interessarsi sempre del sindacato, sono noti a chiunque l’abbia conosciuta bene. Nascevano dalla lunga pratica politica in quella federazione, che l’aveva abituata a un rapporto diretto con la classe operaia, non solo ideologico, ma vissuto nel vivo dell’organizzazione. Per questo Rossana è stata a lungo anche membro della segreteria della Federazione milanese. E credo anche che se a un certo punto, all’inizio degli anni Sessanta, Togliatti scelse proprio lei per affidarle la delicata responsabilità della Commissione culturale nazionale del Partito, sebbene proprio non poche scelte culturali di Rossana avesse duramente attaccato, è perché Togliatti era intelligente ma anche perché aveva capito che Rossana non era una intellettuale qualsiasi. Anche nel Manifesto Rossana ha avuto un ruolo politico molto importante, non solo per via del suo contributo teorico, ma di dirigente dell’organizzazione. Si batté subito per esempio contro chi pensava che il Manifesto dovesse essere solo una rivista, perché non poteva accettare che accanto a chi scriveva ci fossero quelli il cui compito era solo leggere i loro testi. Fu per questo, nel nostro gruppo, fra chi subito assunse una precisa responsabilità nel costruire «il movimento organizzato del Manifesto»; fu lei, peraltro, a tenere la relazione a nome della componente Manifesto al congresso di unificazione con l’ala psiuppina di Vittorio Foa quando a Bologna, nel 1975, nacque il Pdup per il comunismo. E basta del resto sfogliare il quotidiano per vedere quanti sono sempre stati i suoi scritti sulle lotte operaie. Anche nel femminismo, scoperto tardivamente come tutte noi della generazione più anziana, Rossana non ha solo portato il contributo della sua intelligenza, ma anche il suo spirito militante: c’è in proposito un bel paginone del giornale che vorrei ricordare (o far conoscere). Esce quando i primi collettivi femministi nati in seno al Pdup, negli anni Settanta, cominciano a separarsi dal partito. Qui c’è la lettera di quello di Bologna che annuncia la propria decisione, pur riconoscendo che il Pdup «è un buon partito» e non è dunque in polemica che ne escono, bensì perché c’è bisogno di una via separata. Rossana risponde con uno scritto che non piacque a molte femministe. Attente – avvertì le compagne – il femminismo italiano si è distinto da quello di altri paesi europei perché ha avuto un carattere spiccatamente politico popolare, di massa, di lotta. Con la separazione rischia di perderlo. Fui d’accordo con lei, allora. Oggi, a quarant’anni di distanza, avrei dei dubbi, e li avrebbe anche lei: quella separazione era forse un passaggio necessario. Cito quelle sue parole per ricordare ancora una volta che Rossana portava sempre nel suo impegno la sua tempra di combattente. E però anche del femminismo si è poi incuriosita e vi si è immersa, diventandone una voce autorevole. Quanto alla terza definizione con cui adesso è stata ricordata – grande giornalista – a me fa tenerezza: quando passammo dalla rivista al quotidiano, che richiede una specifica professionalità, peraltro già esercitata solo da tre fra di noi (il gradissimo Pintor, Valentino e me), lei si mise a imparare come una scolaretta disciplinata col massimo impegno, la ricordo alle prese con le rudimentali tecnologie del tempo, la tremenda telescrivente, nei cui chilometrici rotoli di carta scritta finiva per impigliarsi. Ma era anche superba, Rossana, intendiamoci: non volle mai fare l’esame da giornalista, le sembrava mortificante. E così tuttora la sua pensione era rimasta quella di “usciere del Manifesto”. Oggi di intellettuali militanti io non ne conosco più nessuno. La loro scomparsa dalla politica è uno dei segni più gravi dell’impoverimento del nostro tempo.

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