di Gianfranco Schiavone 

La compulsiva produzione da parte del governo attuale di nuovi decreti legge sull’immigrazione ha riportato l’attenzione su un diritto di cui si parla poco ma che è patrimonio fondamentale della nostra cultura giuridica. Esso è sancito dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo del lontano 1950 che all’art. 8, primo paragrafo, sancisce: “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare”.

Anche se l’importanza di tale norma è evidente, la sua rilevanza in relazione alle migrazioni internazionali è emersa solo a seguito di una lunga, e non sempre lineare, evoluzione della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo (Corte EDU) e, più recentemente, della giurisprudenza interna. La nozione di vita famigliare si riferisce a tutte quelle situazioni in cui esiste un legame familiare, anche di fatto, che emerge da circostanze oggettive quali la presenza di figli, la convivenza, la durata e la stabilità del legame tra le persone coinvolte. La più ampia nozione di vita privata è invece ben sintetizzata nella sentenza Niemets v. Germania 13710/88 laddove la Corte EDU precisa che non è possibile tentare di dare una definizione esaustiva a tale nozione perché essa ricomprende “in una certa misura, anche il diritto di stabilire e sviluppare relazioni con gli altri esseri umani”.

Il secondo paragrafo del citato articolo 8 CEDU afferma che “Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”. Alla luce di questi vincoli la Corte EDU ha fissato i criteri per considerare legittima o meno l’espulsione di uno straniero che non è più in regola con le norme sul soggiorno di un dato stato europeo ritenendo che tale provvedimento deve essere sempre valutato in base alla sua «necessarietà in una società democratica» e alla sua «proporzionalità al fine legittimo perseguito» (sentenza Boultif v. Svizzera, 54273/00). Qualora dunque l’allontanamento finisca per incidere sulla vita famigliare o privata dello straniero in modo così profondo da ledere dei radicati percorsi di vita, il bene pubblico che si intende tutelare con tale allontanamento deve avere una chiara preminente rilevanza al fine di rendere legittima una misura così dura. È il caso, ad esempio, nel quale sono in gioco profili di sicurezza pubblica.

Non meno rilevante ed innovativa rispetto a quella europea è stata la più recente giurisprudenza interna italiana che ha allargato i criteri interpretativi della stessa Corte EDU ritenendo che la protezione prevista dall’art. 8 CEDU deve sempre essere riferita alla complessità delle “relazioni familiari, ma anche affettive e sociali (ad esempio, esperienze di carattere associativo) e, naturalmente, relazioni lavorative e, più genericamente, economiche (rapporti di locazione immobiliare), le quali pure concorrono a comporre la vita privata di una persona, rendendola irripetibile, nella molteplicità dei suoi aspetti, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” (Sezioni Unite sentenza n.24413/2021). Far valere il diritto al rispetto della vita privata e famigliare in Italia è stato però a lungo reso complesso e a volte persino impossibile a causa di rigidità amministrative e dall’assenza di una normativa interna che indicasse la procedura da seguire e i criteri da applicare nella valutazione di ogni singola situazione.

Il permesso di soggiorno per protezione speciale introdotto con il decreto legge n. 130/2020 convertito con modificazioni nella L.173/2020 delineava un quadro giuridico preciso in base al quale “Non sono altresì ammessi il respingimento o l’espulsione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, a meno che esso non sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica. Ai fini della valutazione del rischio di violazione di cui al periodo precedente, si tiene conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine” (TU Immigrazione art. 19 comma 1.1.).

Che il lettore faccia attenzione ai due periodi della norma sopra riportata perché si tratta proprio dei due periodi che vengono abrogati con il D.L. 20/23 adottato dal Consiglio dei Ministri scenograficamente tenutosi a Cutro quale risposta del nostro Stato a quella tragedia. In quella occasione nulla è stato deciso rispetto ad uno dei più grandi problemi del nostro tempo, ovvero come rendere possibile l’accesso al diritto d’asilo previsto dalla nostra Costituzione all’art. 10 co.3 da parte di rifugiati che sono già fuggiti dai propri paesi di origine e si trovano in cosiddetti paesi terzi dove però, per mancanza di riconoscimento di uno degli status di protezione internazionale o di forme assimilabili e per assenza di minime condizioni di accoglienza e per radicale assenza di prospettive di stabile integrazione, non possono rimanere e sono costretti a cercare altrove quella protezione che non hanno avuto. Era questo il caso di coloro, siriani ed afgani in primis, che sono fuggiti dalla Turchia per trovare la morte sulla costa calabrese.

Come dare attuazione al diritto d’asilo e come contribuire a mitigare gli enormi squilibri tra l’Italia (e l’Europa) e altri paesi nei quali sono confinati milioni di rifugiati è però un tema troppo grande per un governo troppo piccolo che, oltre a chiedere ai rifugiati di morire per favore a casa loro o a casa di altri, ha preso l’occasione dell’ennesimo naufragio per cercare di cancellare o comprimere il riconoscimento del diritto alla tutela della propria vita privata e famigliare. Una cancellazione che non si può fare, e il Governo lo sa bene, perché la cancellazione o modifica dell’art. 8 CEDU non è nella disponibilità del Legislatore, né è mai possibile adottare ed attuare respingimenti o espulsioni che contrastino con gli obblighi costituzionali o internazionali cui è soggetto lo Stato italiano. Obblighi che tanto le commissioni territoriali per l’esame delle domande di asilo che le aule dei tribunali dovranno rispettare.

Qual è dunque, se ve n’è uno, il preminente bene pubblico che si intende tutelare creando ostacoli al riconoscimento del diritto di soggiorno, ad esempio, di un richiedente asilo la cui domanda di protezione internazionale è stata rifiutata ma che nel frattempo, durante gli anni passati in Italia non è rimasto inerte ma ha imparato l’italiano, fatto un corso di formazione e trovato un lavoro che lo rende indipendente? Qual è, se ve n’è uno, il preminente bene pubblico che si intende tutelare cercando di espellere colui che da dieci anni vive in Italia con la sua famiglia e con figli nati in questo paese, che perde il permesso di soggiorno per lavoro e non ne trova un altro nel breve tempo concesso? Cosa ha a che fare tutto ciò con la sicurezza del Paese o anche solo con il controllo e il contenimento dei flussi migratori?

Nella sua conferenza stampa la Presidente del Consiglio ha detto che «la fattispecie si è allargata a dismisura, noi torniamo a restringerla, ma vi annuncio che l’obiettivo del Governo è abolire la protezione speciale e sostituirla con una norma di buon senso che corrisponda alla relativa normativa europea di riferimento». Affermazioni alquanto bizzarre dal momento che è proprio l’applicazione di una norma europea, quella contenuta nell’art. 8 CEDU, ciò che è oggetto dell’attacco del Governo, e altresì, come si è visto, la parte della legge interna che viene abrogata è proprio quella che dettava i criteri sulla base dei quali valutare il radicamento sociale dello straniero, circoscrivendone dunque l’ambito di applicazione. Una norma più vaga e priva dell’esplicitazione dei criteri di esame delle domande di riconoscimento della protezione speciale per rispetto della vita privata e familiare, come quella che modificata dal decreto legge 20/23, avrà come effetto un aumento dei rigetti delle domande da parte delle commissioni territoriali per il riconoscimento del diritto d’asilo, che, giova ricordarlo, non sono, come pur dovrebbero essere, autorità amministrative indipendenti, bensì articolazioni del Ministero dell’Interno assai sensibili agli orientamenti politici. Tutto ciò aumenterà la disperazione di migliaia di persone che non capiranno perché tanto accanimento sulla loro vita e farà esplodere il contenzioso nei tribunali.

E’ arduo trovare una spiegazione razionale a decisioni così lontane da un’azione istituzionale che, anche nei diversi orientamenti politici, dovrebbe sempre essere orientata a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” come richiede, all’articolo 3 la Costituzione che nel riconoscimento di quei diritti inviolabili dell’uomo non distingue tra cittadini e stranieri (Corte costituzionale Sent. 18 luglio 1986, n. 199). Forse non rimane che ipotizzare che in questo cupo momento della nostra vita repubblicana, ciò che muove gli ideatori di decisioni come quella esaminata sia una sorta di oscura rivendicazione del disprezzo verso la vita degli altri, specie se persone deboli, che, da disvalore, tramite un’orrenda metamorfosi, è divenuto supremo valore dell’agire politico.

Fonte: Il Riformista

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