di Carlo Massarini.

Quand’ero un bambino appena tornato dal Canada, mi son trovato nella curiosa situazione di non conoscere nulla del calcio, ma di dover scegliere una squadra. Tifavano tutti, io conoscevo solo baseball e football, ma era ‘un altro’ football, si giocava con le mani e le spallone imbottite.
Scelsi il Milan, e col Milan, ca va sans dire, scelsi Rivera, che racchiudeva la magia del 10, uno stile e un certo tipo di calcio, direi una filosofia di vita. Ma Rivera era come Dio, serviva qualcuno di umano al quale riferirsi, al massimo un semidio, magari coi calzettoni abbassati. Pierino. Pierino Prati. Nome da birbante. Cognome sintetico, e già collocato nel suo luogo naturale, in mezzo alle tribune. Il ragazzo di Cinisello come idolo era perfetto: cresciuto nel vivaio, capellone (per quanto si potesse allora) e ala/centravanti potente. E coi calzettoni abbassati. Lo seguii -come si poteva seguire allora, sulla Gazzetta e Forza Milan- in tutta la trafila, dalla Primavera fino alla prima squadra, capocannoniere alla prima stagione, dalle Coppe delle Coppe alla Nazionale, a ‘quella’ finale del 1969. Quella in cui l’Ajax del giovane Crujff ne prese quattro, e tre erano sue.
Tre gol nella finale di Coppa dei Campioni. Un hat trick da leggenda.

Pierino, che poi tanto ‘ino’ non era, per anni mi è sempre rimasto nel cuore. Una sola foto insieme, scattata da chissà chi, davanti a un Hotel ai Parioli molto meno lussuoso di quello dove alloggia il Milan ora. 1968, quando quella serata pazzesca doveva ancora arrivare, ma il borbottìo burbero di Rocco quando gli chiesi l’autografo arrivò subito: ‘Ragasso, vai a lavorar…’ (mentre firmava). Lo guardai, e pensai: “ma c’ho solo 16 anni, Paron, già devo andare a lavorare?”. Quella foto me la son sempre portata dietro, l’ho anche inclusa fra le foto della vita alla mia festa dei 50. Reliquia di un’epoca lontana, lontanissima, forse mai esistita se non nella fantasia.

In verità non solo era esistita, eccome -ci sono le prove, in b/n, con la voce del grande Niccolò!- ma in aggiunta il tempo poi porta con sé relazioni insospettabili, come quella con (quello che per me è il giocatore più forte degli ultimi 50 anni, so che sono di parte ma se non sei di parte al calcio prova con gli scacchi) Rivera stesso. Persino un programma televisivo insieme. Fino a quel pomeriggio a Milano, una di quelle giornate piene di simbolismi: la presentazione del mega-libro di Gianni, un tomo biblico che nella mia libreria in quanto a larghezza rivaleggia solo con la Divina Commedia e Jazz Life, che cubano come una Treccani.
Ce n’erano tanti, di quelli delle Coppe con le grandi orecchie: Cudicini il ragno nero, Lodetti ‘basleta’ che correva quanto Gattuso, Malatrasi che di Finali ne ha vinte due con le maglie della stessa città. E c’era Pierino. Allora era il più fico di tutti, lui che adorava la Swingin’ London, e vestiti alla moda e frangetta alla Beatles. E lo era ancora, dalla giacca alla borsa a tracolla come un creativo, sciarpa annodata con nonchalance, faccia e ghigno ancora da birba. Gli raccontai in 30 secondi tutta la storia, chissà che avrà capito di quasi 50 anni, e -chissà chi- ci ha fatto due scatti. Quando le ho riviste a casa mi son dato un pizzicotto, era davvero un cerchio che si chiudeva.

Ora il Cerchio si è chiuso definitivamente, all’improvviso. Sono molto triste. Ma ancora una volta, quando te ne vai quello che lasci indietro, la tua reputazione, è quello che la gente ricorda. 102 gol, di cui 3 tutti insieme, in una notte di maggio del ’69. E tante altre serate così.
Ciao Pierino: ora i miei figli hanno le foto con Pippo, con Ambro, con Kakà, con ‘io sono Ibra’. Io mi tengo la tua.

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