di Flaviano De Luca - Il Manifesto.

Miti contemporanei. A proposito di «Vincere a Roma», un memoir di Sylvain Coher edito da 66thand2nd sull’atleta etiope eroe della gara conclusiva dei XVII Giochi Olimpici della capitale, la maratona di 42 chilometri del 1960. Una folla trepidante lungo il percorso che si è snodato tra la Cristoforo Colombo, il Grande Raccordo Anulare e la Via Appia. Un racconto scandito dai ritmi e dai tempi impiegati.

In un tiepido sabato romano che colorava di giallo le pietre di tufo e di rosso i mattoni misti delle mura costruite per fermare le tribù di barbari, il 10 settembre 1960, gli dei dell’Olimpo misero le ali ai piedi di un magrissimo corridore proveniente da una terra antica, Abebe Bikila. Autore di un’impresa eccezionale e prima medaglia d’oro olimpica del continente africano, vedetta sulle orme di Filippide che annunciava la liberazione dei neri, la trasformazione politica mondiale con l’indipendenza raggiunta da decine di nazioni ex colonie.

EROE ASSOLUTO della gara conclusiva dei XVII Giochi Olimpici di Roma, la maratona di 42 chilometri e 195 metri, subito definita un itinerario mitologico per la quantità di luoghi carichi di storia da attraversare, la nuova immagine della città di Romolo e Remo quindici anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, alla vigilia di una impetuosa trasformazione economica. Ai piedi del Campidoglio, sessantanove concorrenti da trentacinque nazioni, i corridori africani sono undici e col pettorale undici, scritto a caratteri bianchi sulla canottiera verde troppo corta, corre Abebe Bikila, uno sconosciuto ex pastore e attuale soldato della guardia imperiale di Hailè Selassiè, il sovrano dell’Etiopia, ripescato in squadra per l’infortunio di Wami Biratu, atleta nazionale fermato poco prima della partenza da un incidente durante una partita di calcio. Un altro segno del destino per l’inarrestabile podista, nato il 7 agosto 1932, giorno della maratona olimpica di Los Angeles, nel villaggio di montagna di Jato dove, da bambino, percorreva chilometri per cercare i pascoli per il gregge della famiglia.

«Corri nell’ombra del marocchino e non uscirne fino all’obelisco». La sua gara è raccontata in soggettiva, alternando le fasi della corsa e i pensieri che s’affollano nella mente, i consigli del suo coach e la gran quantità di gente lungo il percorso che si snoda lungo la Cristoforo Colombo, il Grande Raccordo Anulare e la Via Appia, scanditi dai chilometri e dai tempi impiegati, nello splendido memoir Vincere a Roma (66thand2nd, pp. 144, euro 16, traduzione di Marco Lapenna) di Sylvain Coher, brillante scrittore francese, nato undici anni dopo l’impresa del maratoneta, eppure borsista a Villa Medici per un paio d’anni, trasferendo la sua passione per Roma in questo libro celebrativo del sessantennale della gara (che recupera con ironia anche le gaffe del telecronista francese).

BIKILA ha deciso di correre scalzo, sia per abitudine (gli allenamenti lungo le rive del lago Debre Zeyet sotto lo sguardo di Onni Niskonen, l’allenatore svedese ingaggiato dalla federazione per scovare talenti del fondismo e migliorarli, diventato il suo Virgilio, chiamato spesso papà) sia per le sofferenze causategli dalle scarpe dello sponsor tecnico durante le simulazioni sul percorso capitolino. Nella sacre scritture i viandanti che devono compiere un atto importante calzano i sandali, andare a piedi nudi è un segno di povertà e di penitenza. Lo strato calloso delle piante dei suoi arti inferiori, scure e spesse, è una specie di armatura, di corazza da console romano, «Corro scalzo per sentire meglio cosa mi sussurra la strada» dirà poi, quando gli avversari guarderanno increduli i suoi piedi loricati, in grado di superare la terra battuta, l’asfalto bollente, le pietre spigolose.

Tutto il racconto segue l’andamento della corsa, giocato sulla necessità di tenere le gambe sciolte, sul magnifico piano preparato, sulle sensazioni indimenticabili affrettandosi per le vie, ritmando la prosa con i falsopiani e le accelerazioni, le falcate una dietro l’altra. Ecco la precisione assoluta del gesto senza sbilanciarsi, il benessere delle endorfine, la predisposizione allo sforzo prolungato, l’elasticità del rimbalzo sulla strada, l’estrema concentrazione necessaria «Conosco a memoria ogni minimo dettaglio del percorso; l’ho fatto tutto con papà, e soprattutto l’ho visto nelle notti passate a sognare di correre come corro adesso. Quante volte Yewebdar (mia moglie, ndr) ha riso delle mie gambe che si muovevano sotto le lenzuola! Mi lascio indietro i primi sampietrini unti dalla calura di agosto e dallo sfregamento incessante di mezzo secolo di pneumatici; passiamo poco lontano dal tempio di Giove, custodito nell’antichità non da leoni ma da oche. E già i nostri corpi si allungano come frecce e ci mostrano il cammino – l’azimut perfetto. Il Mondo ci ascolta, ci guarda in mondovisione».

«Corri nell’ombra del marocchino e non uscirne fino all’obelisco». Favoriti il russo Popov, il neozelandese Magee, il francese Mimoun, lo slavo Mihalic e l’instancabile marocchino Rhadi Ben Abdesselem, uno dei più forti, che partiva con il pettorale numero 26. Dopo pochi chilometri restano subito in quattro: il belga Van den Driessche, l’inglese Keily, Abdesselem e Bikila.

IL GRUPPETTO calpesta il nastro d’asfalto del Raccordo Anulare, dove la maratona inverte la marcia per tornare verso la città, con i due africani che accelerano e si staccano. «L’argilla battuta cede il posto al lastricato delle antiche ruote ferrate. Finalmente la regina viarum! Scossoni, strappi- siamo arrivati. Tornano nel crepuscolo le sagome nere dei cipressi come obelischi fallici e gli alti batuffoli sospesi dei pini. Poche rovine sparse segnano i confini del solco che dobbiamo seguire». Alla luce delle fiaccole tremolanti, Abdesselem e Bikila sfilano rapidi lungo l’Appia Antica, come i messaggeri di Claudio alla volta di Brundisium, il porto dove si imbarcavano le invitte legioni.

«Corri nell’ombra del marocchino e non uscirne fino all’obelisco». A Porta San Sebastiano, Rhadi cerca l’allungo finale, Bikila resiste fino all’obelisco di Axum, davanti alla Fao, trafugato dall’esercito di Mussolini durante la guerra d’Etiopia. Nella mente e negli occhi, il gas mostarda, i barili di iprite rovesciati dagli aerei, le esecuzioni sommarie degli sciftà (i ribelli che combattevano contro l’occupazione fascista), le violenze contro donne e bambini. E le parole di Hailè Selassiè nel 1936 alla Società delle Nazioni («sono venuto di persona a testimoniare i crimini perpetrati contro il mio popolo»), la profezia di Marcus Garvey, il Mosè nero, e l’avvento del Leone di Giuda, il Re dei Re.

L’IRRESISTIBILE sprint finale dell’uomo con la canottiera verde, i pantaloncini rossi e la pelle nera; il giovane caporale della guardia reale del negus conquista la caput mundi e la gloria planetaria, stabilendo il nuovo primato mondiale in 2 ore,15 minuti e 16 secondi. «Vincere a Roma sarà come vincere mille volte» gli aveva detto il sovrano Hailè Selassiè, agognando una completa rivalsa di fronte all’opinione pubblica mondiale, proprio nel centro dei suoi oppressori di un tempo. E Bikila vincerà ancora la maratona a Tokyo 64 e si ritirerà a Messico 68 (si era fratturato il perone un mese prima e correva sul dolore). La dea bendata, però, si riprenderà tutte le giornate radiose e il resto, compreso il suo dono più prezioso, l’uso delle gambe, perse a causa di un incidente stradale nel 1969. L’indistruttibile Bikila si darà al tiro con l’arco, partecipando ai Giochi parolimpici di Heidelberg, nel 1972. L’anno successivo morì per un’emorragia cerebrale, a soli 41 anni.

Se potete, fermatevi un attimo davanti alla lapide a Via di San Gregorio, in onore dell’atleta etiopico che «sulle strade olimpiche di Roma raccontò al mondo il cuore e l’orgoglio della sua terra».

Condividi