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L'inflazione corre decisamente più dei salari, traducendo: i lavoratori dipendenti si impoveriscono. Le retribuzioni inseguono i prezzi al consumo senza speranza. In novembre su base annua le retribuzioni sono aumentate del 2 per cento mentre i prezzi del 2,6 per cento. Dal momento che il Pil nominale cresce oltre l'inflazione, ci sono più soldi in circolazione. Evidentemente però non vanno ai salari bensi ai profitti e alle rendite. Probabilmente i bassi salari hanno contribuito a rilanciare le produttività e la competività del sistema italia. Il cui export segna tassi di incrementi nettamente superiori a quelli delle importazioni(come già documentato da Umbrialeft). Le retribuzioni bloccate hanno varie cause, la principale è che milioni di lavoratori (sei, secondo l'Istat), non hanno rinnovato il contratto collettivo nazionale del lavoro, e immediatamente i contratti sono scaduti da 13 mesi. Ormai è diventata consetudine che il rinnovo del contratto si faccia con circa due anni di ritardo, quando già bisognerebbe trattare il biennio successivo. In dieci anni la ricchezza si è spostata dal lavoro al profitto e alla rendita di circa 10 punti. Una quantità di denaro immenso. Gli accordi di luglio del 1993 hanno garantito una grande moderazione salariale, mentre tutte le altre voci non avrebbero dovuto fornire garanzie sul valore d'acquisto dei salari non sono mai, di fatto, state attivate. Se a tutto ciò aggiungiamo la privatizzazione degli istituti dello stato sociale, che da diritto sono diventati beni e servizi d'acquistare, il valore dei salari si riduce ancora di più. La pretesa di legare il salario alla redditività d'impresa non fa che aumentare la disparità tra i lavoratori, tra giovani e anziani, tra nord, sud e centro, senza elementi di equilibrio. Gli imprenditori non riconoscono più la necessità di una mediazione con il lavoro. Così è saltato quel minimo di vecchie regole, non certo vantaggiose per il lavoro. Se anche si legasse il salario all'inflazione, al massimo i lavoratori riuscirebbero a fissare l'esistente, cioè un insieme di diseguaglianze senza alcuna possibilità di riequilibrio. L'idea di ridurre i contratti nazionali al puro recupero dell'inflazione, rinunciando agli aumenti alla pura reddittività d'impresa non frenerebbe lo spostamento della ricchezza verso le rendite e i profitti, si perpetuerebbe questa insopportabile ingiustizia sociale. Una ingiustizia sociale che penalizzando il livello del reddito di milioni di lavoratori diminuisce la domanda interna di beni e servizi colpendo i volumi produttivi del sistema industriale nazionale. Questa tendenza è amplificata in Umbria, dove i salari sono più bassi delle altre regioni più industrializzati e dove si avvertono di più i processi di privatizzazione del welfare. Occorre invertire questa tendenza ad iniziare da una presa di coscienza delle istituzioni locali ad iniziare dal Consiglio regionale dell'Umbria, con una seduta straordinaria sui livelli salariali delle lavoratrici e dei lavoratori della nostra regione. Condividi