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di Eugenio Pierucci Perugia - A leggere certe statistiche sul lavoro si rischia di cadere nello sconforto e di lasciarsi tentare dalla sicuramente sbagliata esclamazione secondo la quale “si stava meglio quando si stava peggio”, quando cioè a lavorare erano in meno, ma in compenso le buste paga erano più gonfie. Ci riferiamo ai dati resi noti dall’Isfol che assegnano al nostro Paese un record di occupazione che apparentemente dovrebbe inorgoglirci: 23 milioni sono gli italiani che hanno un lavoro, fra dipendenti ed autonomi, una cosa che non si era mai vista prima. Solo che, appena questa analisi passa dai grandi numeri alla qualità del lavoro, allora cascano le braccia. Il rapporto sul mercato del lavoro 2007 dell’Isfol è chiaro al riguardo: la disoccupazione virtuale in Italia si è ridotta ai minimi termini, attorno al 6%, ma questo “miracolo” lo dobbiamo al fatto che laddove un tempo veniva impiegato un solo addetto, oggi ne troviamo due: entrambi ad orario ridotto, spesso saltuario, ed entrambi con una retribuzione più che dimezzata, oltre che privi delle più elementari tutele. E’ l’effetto della tanto decantata flessibilità, alla quale dobbiamo la moltiplicazione del precariato per cui ormai un dipendente su dieci soggiace a questa “moderna” forma di sfruttamento assai vantaggiosa per le aziende che possono così risparmiare sui salari ed anche sui contributi che dovrebbero garantire il futuro a questi lavoratori. Uno su dieci, qualcuno potrebbe osservare che tutto sommato si tratta di una percentuale ancora modesta, se non fosse per il fatto che questo fenomeno si è interamente determinato nel giro di pochissimo tempo e, continuando di questo passo, appare destinato a crescere rapidamente, penalizzando fortemente la giovani generazioni. Ciò perché ormai la metà dei nuovi posti di lavoro è a termine e non si vede come questo trend possa arrestarsi, almeno fino a quando non verrà frenato da una nuova legislazione che renda queste forme di impiego meno convenienti per le aziende, stabilendo il sacrosanto principio che il lavoratore flessibile deve essere retribuito più e non certo meno di quello regolare. Un discorso, questo, che interessa fortemente l’Umbria, stando a quanto ci dicono le organizzazioni sindacali secondo le quali che da noi il livello di precarizzazione del lavoro oltrepassa addirittura la media nazionale. A confermarcelo è del resto l’ultimo rapporto economico e sociale redatto dall’Aur (Agenzia Umbria Ricerche), laddove si nota che nel quinquennio 2000-2005 il tasso di crescita della nostra regione si dimezza abbondantemente (scendendo dal +1,1% al +0,5%) se, anziché calcolarlo sugli occupati totali, lo rapportiamo alle unità di lavoro (Ula). Un calo proporzionalmente maggiore di quanto si verifica a livello nazionale (da +1,2% a +0,7%) o dell’Italia Centrale (da +1,8% a +1,2%) e, soprattutto, rispetto alle altre due regioni della cosiddetta Italia Mediana: le Marche (da +1,4% a +1%) e la Toscana (da +1,3% a +0,9%). “C’è in questo processo –si nota nel rapporto- che ha molte similitudini con il sud e con il nord-est, un segnale importante sui caratteri del mercato del lavoro umbro, sulla sua flessibilità-precarietà e anche sulle dinamiche delle imprese in alcuni settori”. Ancora più significative le rilevazioni dell’Agenzia Umbria Lavoro (Aul) che ha elaborato i dati forniti dai Centri per l’Impiego relativamente ai flussi di ingresso nell’occupazione per tipologia contrattuale, secondo cui dei 25.879 lavoratori che nel IV trimestre del 2006 hanno trovato un’occupazione tramite questi servizi, appena 7.040 avrebbero goduto di contratti di lavoro a tempo indeterminato, pari ad appena il 27,% del totale. Dei rimanenti, 2.504 (9,7%) sarebbero stati assunti con contratto di apprendistato e 16.335 (63,1%) a tempo determinato. Per il resto, 5.249 sarebbero stati assunti a Part Time e 311 come lavoratori interinali. Una condizione di insicurezza che colpisce in modo particolare le donne italiane il cui tasso di occupazione è appena del 47%: misura assai lontana da quel 60% fissato a Lisbona e che dovremmo raggiungere entro il 2010. Ciò fa sì che nel nostro Paese le donne in età lavorativa che non hanno, e talvolta nemmeno cercano, un’occupazione, sono più di 10 milioni, anche se in questo senso il dato umbro di occupazione femminile, che si aggira attorno al 56%, ci può essere di una qualche consolazione. Condividi