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Mai provato ad ascoltare la musica di un pianoforte guardando da dove nasce? Lì dove i martelletti battono le corde della cassa armonica? Sembra impossibile che da un movimento così meccanico, così ripetitivo e noioso, possa nascere una magia come quella di ieri sera. I maghi, all’Arena Santa Giuliana, sono stati Gerald Clayton e il grandioso Herbie Hancock. Partiamo dal secondo, quantomeno per rispetto verso questo “old jazz musician”, come lui stesso si è autodefinito all’inizio del suo show. Il grande Herbie però se ne impippa alla grande delle sue 68 primavere e regala alla folla osannante una novantina di minuti di grande musica, grandi sorrisi e energia a tonnellate, come un ragazzino. Come se le lancette dell’orologio fossero ancora ferme a 35 anni fa, quando con i capelli afro che più afro non si può e setosi abiti hippy deliziava i palati con quei capolavori funky che sono “Head hunters” e “Thrust” . Le mani, a dispetto di quello che possono aver detto e tuttora dicono i critici, a rimestare e cogliere il meglio della tradizione nera per poi frullarlo con le tastiere elettriche. Ed è proprio con un pezzo storico di “Thrust”, ovvero “Actual proof”, che il concerto di ieri sera si è aperto. Ad accompagnare Herbie sul palco in questo suo “River of possibilities tour” una band da sogno: alla batteria Vinnie Colaiuta, al contrabbasso e basso elettrico Dave Holland, al sassofono Chris Potter (degno sostituto di Wayne Shorter) e alla chitarra il musicista africano Lionel Loueke. “Actual proof” è una iniezione di adrenalina. Capitan Hancock risale sulla sua astronave psichedelica come sulla copertina di “Thrust” e porta gli spettatori a fare una gita in quello che è stato uno dei suoi tanti periodi artisticamente felici. Dopo la lunga tirata di “Actual proof” capitan Herbie scende dalla navicella e torna per un po’ sulla terra. Ci sono da presentare alcuni dei brani del suo ultimo album dedicato alle canzoni di Joni Mitchell, “River, the Joni letters”, che si è guadagnato un Grammy. Sul palco Hancock invita le due cantanti che sono la bionda Sonya Kitchell e la nera Amy Keys. “River”, “A song for you” e “All I want” le tre canzoni proposte per questa parte di set. Anche lo spazio fisico che Hancock si è costruito per suonare sta lì a testimoniare la pasta musicale di cui è fatto. Da una parte il piano Fazioli e dall’altra, vicinissima, le tastiere elettriche. Una sublime e duplice grandezza, acustica e elettrica. Dopo i due brani della Mitchell Hancock propone al pubblico una chicca come “Seventeen”. Una bizzarria vera e propria scritta dal chitarrista Loueke: invece di fare cose semplici nei classici 4/4, Hancock e soci portano tutto in diciassettesime, seventeen appunto. “Ce la potrò fare?” si domanda Hancock prima di iniziare a suonare. Prova superata, alla grande. Nello show c’è tempo anche per una bella versione di “When love comes to town” di B.B. King (con una splendida Amy Keys) e due assoli di Dave Holland (solido, potente e dal finale con un groove molto funky) e Lionel Loueke (voce e chitarra per echi colorati dell’Africa nera e tribale). Hancock e la band salutano e entrano nel backstage. Tutto finito? Neanche per idea. La folla si riversa sotto il palco e chiama tutti fuori a gran voce. E’ il gran finale. Bastano tre note tre per capire di che si tratta. Hancock (con Roland a tracolla) e compagnia rientrano in scena per “Chameleon”, ovvero il pezzo di apertura di “Head hunters”. E’ il delirio. Il pezzo suonato mille volte e per la millesima volta reinventato. Hancock si diverte da morire a duettare con il sax di Chris Potter mentre Colaiuta e Holland picchiano duro. Una tirata lunga una quindicina di minuti. Strepitoso. Un gustoso antipasto al concerto di Hancock è stata l’esibizione del Gerald Clayton trio che nella sua line-up prevede, oltre al giovane (appena 22 anni) e talentuoso pianista, Justin Brown alla batteria e Joe Sanders al basso. Esteticamente, il trio con più dreadlocks che si sia mai visto. Cinque i brani proposti (“Booga blues”, “Alone together”, “Trapped”, “Sunny day go” e “Peace for the moments”). Un mix di virtuosismo, talento e grande sensibilità musicale per uno dei trio più importanti del jazz d’oltreoceano. Condividi